L’estate non racconta bugie. È assimilabile a un romanzo di formazione di cui si conosce soltanto l’inizio ma del quale il finale è tutto da scrivere perché le mosse e le reazioni dei personaggi principali non sono ancora decifrabili. È il momento della resa dei conti, quello in cui si analizzano i risultati dei mesi precedenti, in cui si tirano le somme e si stilano i bilanci. È il periodo in cui ci si trova di fronte ai propri trionfi o ai propri insuccessi, alle soddisfazioni o alle delusioni di un anno, senza che possano esistere scorciatoie da imboccare, vie di fuga da percorrere o rifugi in cui mettersi al riparo. L’estate è una gigantesca riflessione sulla propria esistenza, sui propri desideri, sulle proprie aspettative.
È un passaggio cruciale, per certi aspetti anche enigmatico. È come la mezzanotte, segna una fine e un contemporaneo inizio. Ci si lascia alle spalle una parte importante di vissuto e ci si prepara a una ripartenza. I giorni di ferie servono per realizzare questo indispensabile rito di transizione che sfocia sempre in cambiamento, alle volte impercettibile, altre volte radicale. Le vacanze estive sono come un sentiero personalizzato da attraversare con tutto il proprio bagaglio di conoscenze e passioni.
L’estate, per esempio, è tutta nei versi di “Break on through (on the other side)” dei Doors. È un viaggio da una sponda a un’altra di un fiume ideale dove “inseguire i propri piaceri e seppellire i propri tesori”, la trasfigurazione del proprio ego, la metamorfosi dell’anima e dell’intelletto. È paragonabile al “giorno che distrugge la notte e la notte che divide il giorno”. Ha la stessa forza dirompente. È uno spartiacque invisibile che scava inersorabilmente nella coscienza. È come un misterioso itinerario interiore che muta scenari abituali e punti di vista rassicuranti fino a sconvolgerli o rovesciarli completamente.
Come succede ai quattro ragazzi di “Stand by me – Ricordo di un’estate”, il meraviglioso film di Rob Reiner, ispirato alla canzone di Ben E. King e al racconto di Stephen King, che, per la prima volta nella vita, si trovano ad affrontare il mondo degli adulti con le sue regole crudeli e incomprensibili. Le avventure di quelle settimane segnano la loro definitiva maturità, il brusco passaggio dall’età dei giochi a quella delle responsabilità non più eludibili, la fine del comodo disincanto, la sopressione repentina di tutte le paure infantili. «Eravamo stati via solo due giorni, eppure la città sembrava diversa. Più piccola». Era cambiato il punto di osservazione. Quell’esperienza li aveva fatti crescere e aveva rimpicciolito i vecchi rassicuranti riferimenti, diventati all’improvviso inadeguati o striminziti. Avevano acquisito una diversa visione delle cose. «Ma abbiamo fatto tanta strada! Siamo o non siamo eroi?».
Ciò che accade pure al Dottor Pereira, il personaggio romanzato da Antonio Tabucchi, che, in una torrida estate portoghese, prende coscienza della feroce violenza del regime salazarista che stava soffocando il Paese e, dietro la spinta decisiva del Dottor Cardoso, forza la sua natura mansueta, chiude i conti con il magma tormentato di nostalgici ricordi e, con un gesto insolitamente coraggioso, sfida apertamente la dittatura. «La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro». Pereira segue il consiglio del Dottor Cardoso e si affranca da una condizione di umiliante subalternità, scaccia il senso di dolorosa inadeguatezza, diventa protagonista e artefice della sua vita e del suo avvenire, rende un servizio alla sua Nazione ferita da tanta sanguinosa barbarie. «Non c’è niente di cui vergognarsi a questo mondo, disse Pereira, se non si è rubato e se non si è disonorato il padre e la madre». La penna si trasforma in una potente arma di opposizione alla dittatura, un articolo svela tutta la sua funzione catartica, la sublimazione delle idee e dell’audacia. «Lei ha bisogno di vivere nel presente, un uomo non può vivere come lei, dottor Pereira, pensando solo al passato». L’io egemone si impone sulla confederazione di anime, Pereira si libera dei fantasmi e dei timori.
La bella stagione è proprio quest’occasione irrinunciabile, un invito ammiccante al cambiamento: è chiudere i conti con il passato e aprire quelli con il futuro. Non nascondersi dietro gli abbagli o le illusioni. Sacrificare anche una parte di se stessi per un nuovo e più ambito traguardo da conquistare.
Ecco perché è un vero spreco abbandonarsi a rituali ridondanti e banali, scadere nella triviale sagra della frivolezza e del divertimento sciocco che impone un modo superficiale di trascorrere le giornate, non importa se al mare, in montagna o in una qualunque città del mondo. L’estate, al contrario, è il momento della scoperta, quello in cui soddisfare la propria curiosità intellettuale, scovare luoghi nascosti, conoscere diverse culture, arricchire le proprie esperienze, confrontarsi con i propri limiti, mettersi pure in discussione e fare autocritica se necessario.
Sottrarsi a questo fenomeno di maturazione è un po’ come mentire a se stessi, raccontarsi delle frottole che non possono reggere alla prova dei fatti e sono destinate ad essere confutate clamorosamente alla prima occasione. Ci si infila in una sorta di labirintico autoinganno senza via di scampo, si diventa schiavi delle proprie stesse inquietudini che scavano nella roccia delle incertezze e sbriciolano ogni residua capacità di evoluzione. «La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità». Almeno in estate, bisognerebbe evitare di raccontare menzogne invece di assecondare le proprie inclinazioni. Sarebbe più logico e opportuno scegliersi il tragitto congeniale e percorrerlo completamente. E, solo al termine del cammino, verificare da dove si è partiti, dove si è arrivati e da dove si ripartirà nuovamente. Senza prese in giro o fuorvianti percezioni. Sarebbe uno sforzo inutile. L’estate se ne accorgerebbe. L’estate non perdona. L’estate non mente.