di Andrea Carpentieri
A casa tua, nella tua Napoli, oggi splende il sole, Diego; non c’è vento, si sta bene, eppure ho freddo.
Ho freddo e piango, piango oggi come ho pianto mercoledì, di un pianto ininterrotto, triste, rabbioso, nostalgico, abbandonato.
È dura abituarsi all’idea che tu non ci sia più, Pibe de oro. Sei andato via ormai da tanti anni e sporadici sono stati i tuoi ritorni in città: eppure a me pare che quel maledetto giorno del 1991 non sia mai arrivato, che tu sia rimasto qui, fra la tua gente e con la tua gente, sempre, da sempre, per sempre.
È impresa ardua <<significar per verba>> cosa tu abbia rappresentato e ancora rappresenti per me: certo, ho visto e vissuto gli anni della tua epopea azzurra, ma forse il segno più indelebile lo hai lasciato negli anni successivi, zurda inmortal.
Quando l’epoca d’oro è finita, quando siamo passati attraverso l’inferno per poi recuperare la nostra dimensione reale, ecco, forse allora ho davvero capito, a distanza di anni, di decenni, cosa tu davvero fossi stato.
Sei stato il Re, Diego, l’unico e il solo: sei stato il capo che si mette alla testa di un popolo per andare a dominare l’Italia e l’Europa, permettendo a chi non era mai stato nessuno in ambito sportivo di gonfiare il petto, di sentirsi vivo, vincente.
Sei stato la voce di una città che, se non cantava in qualche festival nostalgico, nessuno ascoltava mai. Sei stato capace di guardare negli occhi un’Italia razzista, cristallizzata nei suoi equilibri economici, politici e sportivi e di urlarle in faccia che la musica era cambiata, che un bimbo povero nato a Villa Fiorito era venuto a Napoli per cambiare le gerarchie, la storia e la geografia del calcio.
Hai amato Napoli, Capitano mio indimenticabile, più di quanto l’amassero tanti napoletani: l’hai difesa, l’hai esaltata, le hai dato gioia ma soprattutto – e ti garantisco che da queste parti non è accaduto spesso – non te ne sei servito, non l’hai tradita.
Anche quando avresti voluto provare nuove esperienze, ce lo hai detto in faccia, come fanno gli amici con gli amici, i figli con la propria madre.
Dicono sia finita, Diego, ma io non riesco ancora a crederci, non voglio crederci, perché il fatto di saperti vivo, il fatto di sapere che in qualche punto del pianeta c’era Diego, D10S, il mio eroe insuperabile, mi infondeva sicurezza.
Sì, lo so, è strano, è folle, nulla avresti più potuto fare per noi sul prato verde, eppure la tua sola esistenza mi faceva sentire come se, nel caso la squadra ne avesse avuto bisogno, ci saresti stato tu, l’avresti aiutata con un’altra <<corrida memorable>>.
Mi manchi, immenso amore della mia vita calcistica, e manchi a tutti coloro che ti hanno apprezzato: soprattutto, però, manchi alle tue due patrie, ai tuoi due popoli, manchi a Napoli ed all’Argentina.
Continueremo a vivere nel tuo ricordo, a perpetuarlo ed a trasmetterlo a chi verrà dopo di noi, D10S, ricordando cosa sei stato, cosa ci hai dato, cosa hai fatto per noi, cosa abbiamo vinto insieme.
E lo faremo, Diego, cantando una semplice canzone, una canzone che condensa in due sole parole, ripetute più volte, quelli che sono gli affetti più grandi e veri che un napoletano possa provare dopo il 5 luglio del 1984.
Le parole in questione sono <<mamma>> e <<Maradona>>: quanto alla canzone, ho idea che la ricordi ancora, ma nel dubbio te la canto.
Faceva così:
Oh mamma mamma mamma,
Oh mamma mamma mamma,
Sai perché mi batte il corazon?
Ho visto Maradona,
Ho visto Maradona,
Ué, mammà, innamorato son.