L’immagine del nostro Paese, nel corso degli ultimi anni, ha subito ineluttabilmente molti colpi, visto che il primato politico, che prima avevamo sul Mediterraneo, è andato progressivamente scemando e visto che la nostra economia non è più posizionata fra le prime cinque al mondo, ma purtroppo siamo molto più indietro nella graduatoria delle nazioni più ricche.
Tale dato è destinato a peggiorare vieppiù nei prossimi decenni, per effetto della crescita di Stati, che, fra venti anni, saranno all’avanguardia per crescita economica e sviluppo tecnologico.
La politica è la migliore cartina di tornasole di tale sbandamento, visto che risulta evidente a tutti che, nel corso dell’ultimo ventennio, il nostro ceto dirigente ha compiuto – per qualità e meriti conclamati – notevoli passi indietro rispetto alla classe governante della Prima Repubblica, che, nonostante sia stata spazzata via da Tangentopoli, comunque dimostrò – nel periodo in cui essa governò – che era in grado di assolvere al suo compito in modo più che egregio.
Infatti, dal 1994 in poi le ruberie non sono, invero, diminuite; anzi, risulta che esse siano addirittura aumentate, dal momento che, con la moltiplicazione dei centri di spesa, ineluttabilmente le possibilità di diffusione della corruzione sono aumentate vertiginosamente, per cui, per effetto di una saldatura fra i politici ed i dirigenti dello Stato infedeli, si sono centuplicate le modalità e le forme concrete di sottrazione indebita del danaro pubblico, con conseguenze nefaste sia per l’Erario, che per la qualità delle opere e delle attività, che sono state messe in piedi da Enti Locali e Ministeri.
Oggi, il ceto politico si interroga su di una questione centrale: la legge elettorale.
Essa non rappresenta, meramente, un dispositivo tecnico con cui eleggere i parlamentari, ma è lo strumento di selezione, per definizione, di chi ci dovrebbe governare.
Negli ultimi venti anni, gli interventi legislativi apportati sono stati molteplici ed hanno condotto l’Italia dal proporzionale al maggioritario, salvo un brusco ritorno al sistema di voto più congeniale alla nostra tradizione del Novecento, benché tragicamente corretto con l’assenza delle preferenze e l’introduzione di liste bloccate, che rendono i Senatori ed i Deputati dei nominati, in grado di rispondere unicamente a chi li ha messi in lista e non agli elettori, di cui non conoscono – neanche – bisogni ed esigenze.
Per selezionare al meglio la propria classe dirigente, il PD veltroniano ha inventato il meccanismo delle primarie, alla maniera americana, ma tale strumento ha dimostrato ben presto i suoi enormi limiti, visto che non mette un freno alle infiltrazioni criminali in politica, dato che, in particolare in alcune aree del Paese, è possibile che forze eversive possano fare il loro ingresso nella vita dei partiti, attraverso la partecipazione appunto a tale occasione elettorale, e determinare così la scelta di chi, poi, si andrà a candidare ad importanti ruoli parlamentari o di amministrazione degli Enti Locali.
Ormai, il trasformismo, che certo non è un dato solo attuale, ha invaso la politica in modo prorompente: nel corso della Prima Repubblica, esso era un dato fisiologico di una democrazia parlamentare, nella quale non esiste per definizione vincolo di mandato, ma ora è divenuto il modus agendi per antonomasia dei politici, che, fiutando il vincitore di turno, non esitano ad abbandonare i loro partiti precedenti per salire sul carro di chi, molto probabilmente, è destinato ad una facile vittoria.
Naturalmente, un siffatto sistema è la prova concreta che non esiste alcun codice etico nella vita dei rappresentanti istituzionali, dal momento che le ragioni della vittoria tendono a prevalere su quelle della moralità pubblica, che dovrebbero – invece – essere di riferimento per quanti aspirano, legittimamente, ad interpretare un ruolo di rappresentanza del mandato popolare.
In sostanza, quindi, l’Italia è peggiorata – non poco – in tutti questi anni, nei quali abbiamo sognato di essere divenuti, finalmente, un Paese con un Parlamento ed una cultura politica di tipo bipolare, presumendo che si fosse, addirittura, in grado di esercitare una virtuosa forma di democrazia diretta, benché in termini formali non sia mai stata abbandonata la traccia del parlamentarismo, segnata dai Costituenti nel biennio 1946-48.
Oggi, ci troviamo a fronteggiare le macerie della Seconda Repubblica, con partiti che rischiano, di nuovo, di essere spazzati via dalle indagini della Magistratura penale e con leader improvvisati, che – molto spesso – mostrano poche altre virtù, se non la capacità di affascinare, con gli strumenti fuorvianti della retorica, gli spettatori televisivi ed il merito – invero, effimero – di essere fotogenici.
Di questo passo, la distanza fra cittadini e governanti sarà sempre maggiore, per cui l’Italia conoscerà livelli di astensionismo, che mai erano appartenuti alla nostra tradizione: coloro che saranno eletti, molto probabilmente, saranno espressione di una minoranza del corpo elettorale, per cui il loro mandato non potrà che essere delegittimato sin dalle fondamenta, visto che nasceranno Governi – nazionali e locali – che non avranno il consenso, neanche, della metà degli aventi diritto al voto.
Cosa fare, allora, per risalire la china?
Forse, tornare al passato, auspicando un processo revisionistico, che è già in fieri?
Forse, guardare al futuro, sapendo bene che ciò che si è distrutto non potrà mai tornare sic et simpliciter?
Forse, semplicemente rimanere ad assistere al declino attuale, augurandosi che il prossimo sedicente Salvatore della patria possa – di nuovo – imbonire la piazza mediatica ed acquisire, così, una larga fiducia, utile – almeno temporaneamente – a far scoppiare, finalmente, la pace fra Paese reale ed istituzioni?