di Rosario Pesce
Ieri sera l’annuncio: la zona rossa è estesa a tutto il territorio nazionale.
È evidente che questo sia il momento peggiore della storia recente del nostro Paese, visto che ci troviamo a combattere contro un nemico infinitesimale, che produce contagi e morte.
Non sappiamo, ad oggi, quale possa essere la propagazione del virus nelle prossime settimane, in particolare nelle nostre regioni del Centro-Sud, dove l’epidemia non ha ancora acquisito le dimensioni ed i numeri del Nord.
Certo è che, per l’economia, siamo di fronte ad un brusco stop: anche se il contagio dovesse finire a breve, i danni prodotti fin qui sono notevolissimi ed, in parte, non del tutto recuperabili.
Ma, il danno maggiore lo hanno subito la società e le relazioni interpersonali: passeggiare per le nostre città, non incontrando gli amici consueti o non partecipando alle ordinarie attività di socializzazione, costituisce invero uno scacco per il sentimento di comunità.
Sui treni, nelle strade, nei locali pubblici ciascuno – come è giusto e necessario che sia per limitare il contagio – si guarda bene dallo stringere la mano all’amico o all’avventore di turno, cercando di limitare la relazione, finanche quella solo verbale.
Ciascuno di noi, quindi, viene avvertito dall’altro come un possibile untore, suo malgrado, per cui ognuno a tutela della propria salute evita qualsiasi possibile contatto.
Non si provano belle sensazioni a vivere in un mondo siffatto, nel quale la socialità lascia il posto alla diffidenza ed all’esclusione dell’individuo dal contesto sociale, sia pure per inderogabili ragioni di prevenzione sanitaria.
Quale sarà, allora, la condizione del Paese fra due mesi, quando si auspica che, con i primi caldi, la potenza del virus possa essere annullata?
Forse, saremo del tutto estranei gli uni agli altri, chiusi in una condizione psicologica di isolamento e di quarantena emotiva, finanche quando saremo – comunque – assorbiti in un contesto sociale non derogabile?
Questo virus costituisce una sconfitta, quindi, per tutti: per coloro che perderanno la vita (e per i loro congiunti), ma soprattutto per coloro che, pur attraversando indenni la tempesta, si sentiranno un po’ più soli al mondo, visto che il ritorno alla normalità delle relazioni interpersonali non può essere, certo, immediato ed agevole.
Ed, allora, la crisi non si misurerà solo in termini ponderali con il numero dei decessi o con quello dei punti persi di P.I.L., ma soprattutto dovrà misurarsi in base ad un principio qualitativo non quantificabile: la qualità del vivere sociale, che già oggi è molto precaria e non potrà non esserlo ulteriormente, se il contagio non si arresterà a breve.
Per disfare il senso della comunità, è bastato un virus: per ricostruirlo quante energie saranno necessarie?