di Marco Cannata e Mario Proietti
Io e Marco Anastasio ci siamo conosciuti in un periodo particolare. Almeno per me.
Era appena passato il 22 aprile e chi vi scrive viveva in un mondo tutto suo.
Perfino al lavoro quella settimana l’avevano capito che non mi dovevano scassare il cazzo a meno che non prendesse fuoco il negozio, che la mia testa era piantata lì, al minuto 44.06 di uno Juventus Napoli che mi squarcia l’anima a ripensarci adesso.
Le mie giornate le passavo a rivedere il video di Gerardo Marino, Super Sarri Bros, che iniziava con la radiocronaca di Repice e che passava per pezzi di 1926 sparsi per il mondo.
Dal locale di New York alla casa di Nino D’angelo, circoli privati e trasmissioni. Con il pezzo della colonna sonora dell’ultimo dei Mohicani con Kalidou che corre a braccia aperte verso José che le lacrime non le fermavi manco per il cazzo.
Poi incontrai Nasta. Che Marco Anastasio si chiamava così all’epoca. E quel pezzo su Maurizio Sarri mi entrò sotto la pelle senza uscirne più. La musica il testo, la voce. Era perfetto per quel momento storico della mia vita.
Voce 081, argomento 1926, che per me, che mi definisco disintegrato in terra piemontese nel senso che non mi integrerò mai, rappresentava una sorta di manifesto dedicato a chi aveva mostrato il medio al mondo in bianco e nero in cui vivevo, Maurizio Sarri, che quel medio era di tutti noi, era il grido di ribellione di noi terroni bastardi e fieri.
Poi è successo quello che è successo.
Ci hanno rapinato il campionato e quel che peggio avvelenato i ricordi, che il gol di Koulibaly sono stato incapace di rivederlo per mesi e con lui la canzone di Nasta e il video sopracitato, che mi sanguinava l’anima.
L’ho ritrovato per caso Marco Anastasio, che nel frattempo ha abbandonato Nasta.
Nella sua musica c’ho visto tutta la forza della Partenope inquieta e talentuosa.
L’umido dei vicoli, quei vicoli che sono vita, sono università, sono memoria e futuro, vicoli casa di talento e testi potenti e palloni da imparare a proteggere dalle macchine e dalla merda dei cani. Musica e pallone, i nostri vicoli.
E chi riesce ad uscire da quei vicoli ne esce con la forza del talento e la delicatezza della poesia, perché significa che è riuscito a far sì che il sole non asciugasse del tutto l’umido della sofferenza rischiando di inaridire anima e ricordi, ma ha imparato a far coesistere dentro di sè, in una perpetua tensione emotiva, tutte le mille anime e sfaccettature di questa città. Che si tratti di musica, pallone o vita. E non è mai detto che ci si riesca, ma la vittoria, quella vera, consiste nel provarci.
Ho rivisto nei suoi pezzi sprazzi della classe di Nino Musella, l’invalicabilita’ sancita da Fabio Cannavaro contro i tedeschi nel 2006, il talento soffocato dal destino di Ciro Caruso, la rabbia del destro di Ciro Ferrara nella finale di Stoccarda, il genio di Lorenzo, le lacrime che riempivano gli occhi di Paolo Cannavaro che il Napoli in quel pomeriggio di Marassi era ritornato in serie A.
Ho sentito la rabbia potente della curva in quella voce, in quei testi, quel sostegno tracimante a prescindere che accomuna l’amore per la propria squadra e quello per il proprio talento, quella testa che da vita alla poesia feroce e visionaria, proprio come quel pallone che spaccò in due una notte di aprile generando emozione e malinconia eterna.
C’è dell’acciaio in Marco Anastasio, qualcosa che nessuno riesce a intaccare… c’è un tormento, che nemmeno lui è capace di mediare e che ti tira dentro lo schermo, trascinandoti in un vortice di rabbia e audacia che abbatte ogni tipo di resistenza emozionale e interrompe quel quotidiano, squallido silenzio dei nostri cuori.
Buona fortuna Marco, che te la meriti, perché chi è capace di emozionare ha già vinto, vincerà sempre, che chi ti ascolta non può che essere investito dall’urto della personalità, dalla frenesia delle parole con il corpo che è costretto ad inseguirle e l’adrenalina che fatichi a toglierti di dosso.
Ti afferra i sensi, Anastasio, ti costringe a fermarti per ammirarlo e puoi distintamente percepire le tre correnti del tempo che diventano spazio, il passato, il presente e lui: il futuro.