di Sarah Galmuzzi
Era il 1995 quando in Piazza Plebiscito veniva installata, nella diffidenza generale, la montagna di sale di Mimmo Paladino.
Napoli usciva carica di entusiasmo dai fasti del G7 e in cittá si iniziava a definire una nuova idea di politica culturale. Nuova in quanto basata su un concetto di rete, un’azione di ampio respiro che interessasse istituzioni pubbliche e private, gallerie e musei, festival e rassegne, cinema e teatri, stazioni della metropolitana e luoghi pubblici.
Prendeva forma il preziosissimo progetto del ‘museo obbligatorio’: vale a dire ovunque ti trovi qualcosa sempre vedi. Che è un po’ come quando ai bambini si parla in una lingua straniera: all’inizio non capiscono ma nell’esercizio della continuità prima o poi qualche parolina acchiappano fino ad iniziare, lentamente, a costituirsi in un lessico nuovo, che riserva sempre meno sorprese e regala, in compenso, sempre più strumenti conoscitivi, speculativi e dialettici.
E per un po’, ad avviso di chi scrive, ha funzionato.
La diffidenza (sovente accompagnata dall’immancabile vandalismo) ha lasciato piano piano il passo alla curiosità, talvolta all’interesse, infine all’attesa.
La cittadinanza, o comunque buona parte di essa, rassicurata e dunque educata da un’azione quasi rituale ha aspettato ogni anno di leggere, scoprire, vedere, sapere, certa che, al di là del bello e del brutto -categorie che nell’arte contemporanea non possono esistere- in città si sarebbe a breve materializzato qualcosa di pazzesco, colossale, importante ed unico al punto da farci occupare le prime pagine della stampa internazionale, da attirare un interesse culturale reale, ad alzare l’asticella della percezione di una città accattona sempre in cerca di riscatto.
Al di là di cogliere il significato reale delle azioni poste in essere, o di apprezzarne il contenuto specifico, quello che ha gonfiato il petto dei napoletani inducendoli ad un rispetto naturale, assolutamente spontaneo per le grandi operazioni artistiche e culturali, è stata la loro importanza, la loro autorevolezza, dunque la loro rispettabilità.
Poi un giorno questa bolla si è sgonfiata.
Non è questo il luogo dove si discetta di soldi pubblici e della loro destinazione in bilancio, ma piuttosto uno spazio di riflessione su quanto le politiche culturali si siano drammaticamente impoverite, lentamente spente, anno dopo anno passando per improbabili N’alberi, feti incatenati, luminarie natalizie dalle forme ambigue spacciate per imperdibili interventi di arredo urbano.
A quei bambini si è smesso piano piano di parlare inglese e hanno perso l’orecchio; le istituzioni non sono risultate più credibili per via di operazioni culturali sporadiche, non organiche, raccogliticce, di valore mediocre, che mai più sono state in grado di offrire una visione di ampio respiro, di far gonfiare il petto dei suoi cittadini.
E non ci si è mai più ripresi, purtroppo.
Ora, che il Pulcinella di Gaetano Pesce che da giorni infiamma le polemiche pecorecce della stampa cittadina sia bello o brutto, dall’alto contenuto concettuale o terribilmente didascalico, colossale o semplicemente fallico, di valore o mera paccottiglia, poco importa.
Importa che sia stato preceduto dall’operazione fallimentare e grottesca della Venere degli stracci, e da altre azioni mediocri, assolutamente autoreferenziali, dal valore e dal senso incomprensibili, espressione unica di una colonizzazione culturale che mira giusto a mettere bandierine abdicando a qualunque visione, a qualsivoglia vocazione educativa.
E quindi no, i napoletani non sono lazzaroni che sghignazzano sulla forma fallica dell’installazione di Gaetano Pesce: sono diventati rane incapaci di percepire l’aumento della temperatura dell’acqua dove sono immersi, e sono morti bolliti.