di Danilo Cappella
Le emozioni sono sempre difficili da spiegare. Ti svegli col sorriso, e non sai bene il perché. Hai il sentore che la giornata andrà bene. Che anche se qualcuno provasse a scalfire il tuo buonumore, sarebbe un momento passeggero, incapace di rovinare tutto il bello che vedi. Torni con la mente alla sera prima, chi ti conosce ti chiede com’è andata. Tu puoi dire solo “benissimo”; spiegare il resto è davvero impossibile. È per questo che mi dispiace sempre per quelli che non vivono lo stadio (e non c’è nessuna polemica “anti-occasionale” in questo); mi dispiace perché chi ha guardato la partita da uno schermo, o l’ha ascoltata alla radio, riesce facilmente ad immaginare quello che può accadere in gradinata. Ma si sbaglia. Cazzo se si sbaglia. Perché non è bello come si può pensare. Lo è di più. L’emozione che vivi lassù non è quantificabile, non è minimamente concepibile. La puoi provare a racchiudere in alcuni fermo immagine, sperando riescano a liberare le stesse sensazioni ogni volta che esplodono nella tua testa. Il sorriso di Milik. Un ragazzo arrivato in punta di piedi, che non ha mai immaginato di sostituire quell’altro, quello passato al nemico, ma si è ritrovato nella situazione di doverlo fare. Quando la musichetta finisce e il San Paolo trema, si guarda attorno esterrefatto. Glielo avevano detto che sarebbe stato bello, ma mica così. L’uomo chiamato Arcangelo, già a quota 7 gol totali, ha la voglia di spaccare il mondo di un ragazzino, il fisico di un atleta fantastico e il piede sinistro chirurgico e sereno che chiude definitivamente la partita col rigore piazzato all’angolino basso. Ma questo è un contorno. La poesia, quella vera, avviene prima. La partita è iniziata da un quarto d’ora circa, la tensione è a mille, il mal di testa ci distrugge. Mio cugino mi guarda e mi fa: – accendo un’altra sigaretta. – aspetta il 20-esimo. gli rispondo. Ma al ventesimo esatto è calcio d’angolo per noi. E allora aspettiamo di batterlo prima di rinchiuderci in quel maledetto vizio che fa soltanto male. Il pallone parte. Cresta. Il tempo si ferma. Gol. È il delirio. A questo punto la descrizione sarebbe confusa. Un battito unico. Un pianto compatto. L’uomo col 17, arrivato qui ragazzo, si è ripreso il suo Napoli; l’unico fedele e comunque ancora inspiegabilmente criticato da molti è rimasto qui, a lottare coi deboli. E lascia subito un segno indelebile. Prima di spalancare la bocca e urlare come solo lui sa fare. Credo che al ventesimo del primo tempo ho capito che cos’è la felicità. Perché se non è quella, non saprei proprio come figurarmela diversamente. Sento una voce dal nulla che dice la frase più esatta che sia mai stata detta nel mondo: “Sto vivendo!” Esattamente. Definizione più adatta di quello che accade sullo stadio in serate come ieri non esiste. Venditti cantava “nata sotto il segno dei pesci”. Noi invece siamo vivi. Vivi sotto il segno di Marek. La partita sarebbe potuta finire lì, e forse così è stato. A che serviva andare avanti dopo tanta bellezza, tante emozioni, tanta perfezione? Evidentemente, c’era ancora qualcosa da scoprire. Tra primo e secondo tempo ci ricordiamo di Napoli-Borussia, di quanto siamo cresciuti da allora. Anche lì iniziammo con un colpo di testa, di quello col 9; il cross, però, veniva dall’altra parte. E che importanza può mai avere ricordarti in maniera maniacale certe cose? Ce l’ha, fidatevi. Perché quando l’uomo col 14 sulle spalle sta per battere la punizione, pensi che quella sera ormai lontana nella memoria il secondo lo facemmo su punizione. Ma era dall’altra parte. Come il cross di prima. “Tanto ‘ste coincidenze non succedono mai” ho pensato. Invece è andata com’è andata. Il fato esiste, a quanto pare. E ce lo doveva dire un folletto belga naturalizzato napoletano. A tal proposito, pare che cambieranno il nome della statua che si trova in Belgio famosa in tutto il mondo. Da Manneken Pis a Manneken Dries. Dei 20 minuti finali di partita parleranno i giornalisti veri, quelli che amano andare contro il Napoli senza mai esaltarne le imprese. Già lo so. Il black-out. La mancata gestione delle partite. Signori, credete a me; convertitevi, perché ad un certo punto non avrete più bugie da raccontare. Io preferisco parlare degli attributi che ha Maksimovic; che, per niente impaurito dai 35 milioni che dovrebbero dire chi è prima che lo dica lui, esordice in una partita di Champions e non sbaglia praticamente nulla. Com’era quel coro sui vigili del fuoco? Ah, sì. “E Nikola paura non ne ha!” Quando la partita è finita mi sono seduto. Volevo soltanto rilassarmi dopo una partita che avevo giocato anche io. I giocatori sono venuti sotto la curva a salutare. Ero stato in piedi per loro fino a quel momento. Loro avevano corso per me, per noi, per 90 e passa minuti. Meritavano l’ultimo sforzo. Mi sono alzato e ho regalato la mia standing-ovation. Perché era giusto così. Il merito di tutto questo, inutile dirlo, è dell’uomo in tuta che fuma sigarette. Quello che ha creato, e che continuamente si evolve tra le sue mani, è ampiamente visibile ad occhio nudo, e ogni altra parola sarebbe assolutamente superflua. Allora andiamo avanti. Crediamoci. Crediamo davvero che possa accadere di tutto. Anche di raggiungere traguardi totalmente inaspettati. Del resto, se non ci credessimo, che senso avrebbe tutto questo? Quando vedo giocare il Napoli, questo Napoli in particolare, e guardo la gente attorno a me estasiata quanto lo sono io, e vedo nei loro occhi le mie stesse illusorie speranze, mi viene in mente un dialogo tra Alice e il Gatto nel celebre romanzo di Carroll. «Ma io non voglio andare fra i matti», osservò Alice. «Be’, non hai altra scelta», disse il Gatto «Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.» «Come lo sai che sono matta?» disse Alice. «Per forza» disse il Gatto: «altrimenti non saresti venuta qui.»