di Elio Goka – gettyimages
È soltanto un gioco delle parti. Una religione sorta dalle ceneri delle civiltà. Se c’è stato un momento che ancora reclama disperatamente di essere ascoltato, è quello dell’uomo libero da ogni uomo. La liberazione fu un transito per altre schiavitù e i liberatori impostori sotto mentite spoglie. Come si può pensare di vivere al rilancio di forme ambigue di progresso? Le sofisticazioni dell’umanesimo. A questo s’è ridotto quel gioco delle parti.
Adesso, secondo quanto accaduto e imposto dalla scoperta dei lager ad oggi, da Hiroshima e Nagasaki alla Dissoluzione, dalle dispute afghane alle guerre in Iraq, fino alla fine del mondo – perché di questo si tratta -, cosa dovrebbero fare i governi in costante predicato del giusto? A quale soluzione dovrebbe dar seguito l’Occidente? Quale sanzione-principio applicare? Cosa dovrebbero fare gli statunitensi a se stessi? Sì, perché a se stessi dovrebbero rivolgersi, fermando il vento sopra la loro bandiera sventolante una storia in costante lacerazione e ricucitura di sé.
Andrebbero invasi, in quanto luogo in cui da decenni si verificano violazioni contro i diritti fondamentali dell’uomo? Andrebbero severamente sanzionati perché sui loro confini vengono frustate persone in cerca di soccorso? Quante commissioni dell’ONU dovrebbero ricevere per verificare pratiche contrarie ai principi contenuti nei trattati che in altre sedi essi stessi hanno pubblicamente ratificato in nome di valori che, secondo i loro proclami, sarebbero al centro della loro politica internazionale? A quale e a quante sbarre dovrebbero sedere i loro presidenti, i loro ministri, capi militari, dirigenti di polizia, per quanto commesso e omesso nel corso di un mandato storico intrapreso da oltre mezzo secolo?
Un numero non ben dichiarato di colonie si dichiarano amiche di un sistema di ipocrisie che commette, apertamente o di nascosto, quello che al tempo stesso condanna ad altri sistemi ora utili e un istante dopo nemici, in una imprevedibile e frequente inversione dei ruoli che è il meccanismo privilegiato di quell’impianto di retoriche e artificiali edulcorazioni che è la diplomazia.
Da una parte, c’è chi spara a chi non c’entra nulla, c’è chi fa del male per fare del male, e dall’altra c’è chi chiede scusa, ammettendo errori e imbarazzi. Come se non esistessero ministri e vertici che dovrebbero dimettersi, sottoponendosi a giusti processi nella piena assunzione di responsabilità. Come se non esistesse il demerito politico di un misterioso andirivieni in luoghi lontani dove un minuto prima si dichiara vitale la responsabilità di soccorrerli con la “circolazione di modelli democratici” e un minuto dopo i nemici di quei modelli diventano interlocutori per qualcos’altro.
E con tutto questo l’Italia va a braccetto. Perché fa parte di quella costellazione di colonie, perché vuol fare credere che un qualche genere di progresso passi per queste strade. E c’è davvero da chiedersi come sia possibile una forma di beneficio laddove prospera una malafede a dispetto di un cedimento sia pur momentaneo di quel sistema di forze. Per una volta, a favore di pietà.
È dunque con questo che si vuole agire per dirsi in pace con la coscienza? Ci si è così convinti di essere nel giusto da scagliarsi contro qualunque dubbio che ne metta in discussione la validità? Non nasce anche da questo l’integralismo? Non si alimenta anche di questo il fondamentalismo religioso? Non è esso stesso uno dei volti di un’arrendevole e totale remissione al luogo ostile e serrato dell’umano?
Quel gioco delle parti è poco a poco diventato una pedagogia di massa che ha educato e condizionato intere generazioni, fino al punto da formare un codice morale territorializzato, che ha tracciato dei confini immaginari sopra l’intendimento collettivo proprio come facevano i colonizzatori dei secoli addietro.
A tutto questo è stato dato ragione. Quella che oggi viene ancora riconosciuta come l’unica possibile, anche quando ammette con chiarezza di avere torto.