di Gemma Delle Cave
Era il 1974 e Fabrizio De Andrè, insieme a un giovane Francesco De Gregori, stava lavorando ad un nuovo album (che si sarebbe intitolato Volume 8), nella sua casa in Gallura, la parte centrale e più selvaggia della Sardegna. Una mattina, mentre i due erano in casa, uno seduto al tavolo a scrivere e l’altro sul divano che accennava alcune note con in braccio la chitarra, arrivò Cristiano De Andrè, figlio del cantautore genovese, insieme alla madre. Trovatosi di fronte De Gregori, non riuscì a trattenere una domanda: “Ma perché Alice guarda i gatti?”.
È lo stesso Cristiano De Andrè ad aver riportato pubblicamente l’aneddoto in numerose occasioni, appunto, affermando di aver espresso una curiosità su una frase di una canzone di De Gregori, a cui in quel momento non ebbe una risposta. Per averla attese qualche mese dopo, alla pubblicazione dell’album.
Precisamente Cristiano trovò la risposta al quesito che lo attanagliava nel brano Oceano. Infatti, “il bambino con le mani in tasca”, che pone al poeta le domande “quanto è grande il verde, com’è bello il mare, quanto dura una stanza?”, è proprio quel ragazzino che avrebbe voluto sapere perché Alice guarda i gatti, e che non ha mai visto esaudito questo desiderio.
Allo stesso tempo, però, in una canzone che in realtà si presenta come un grande punto di domanda, prima da parte di un interlocutore fittizio (“Quanti cavalli hai tu seduto alla porta/tu che sfiori il cielo col tuo dito più corto”) e poi da parte del bambino, la risposta è che non sia importante cosa letteralmente si celi dietro un verso o l’intenzione di un poeta (“ti offenderesti se qualcuno ti chiamasse un tentativo”). Ciò che conta è il significato che soggettivamente chi ascolta riescae ad attribuire alle parole (“prova a lasciare le campane al loro cerchio di rondini e non ficcare il naso negli affari miei”) e quali emozioni tali parole riescono ad accendere (“ma se ci tieni tanto puoi baciarmi ogni volta che vuoi”).
Del resto, così accade un po’ in tutte le forme d’arte esistenti ed è proprio questo il bello: l’artista crea qualcosa -una canzone, un quadro, una scultura, una poesia- ma ciò che suscita anche nello stesso spettatore non è mai la stessa sfera di sensazioni. È come se quell’opera accendesse sempre la creatività nella nostra anima.