-di Ornella Esposito
L’esordio letterario dello sceneggiatore Athos Zontini che ci porta nel mondo di un’infanzia non vista.
Meglio togliersi subito il pensiero: il primo romanzo del giornalista napoletano Athos Zontini edito da Bompiani è a dir poco strepitoso. Un libro morbido, divertente, sagace, in cui l’autore, attraverso il punto di vista di un bambino, di cui non viene mai rivelato il nome, getta uno sguardo profondo sulla paura di crescere, di fare ingresso nel mondo incerto e mediocre degli adulti, ma soprattutto sulla cecità di questi ultimi verso l’infanzia, cui è negata ogni possibilità di esprimersi e desiderare.
La storia si svolge nell’arco temporale di un anno, scandito dalle quatto stagioni, sullo sfondo di città, Napoli, mai nominata, ma di cui si scorgono nitidi i contorni fisici e culturali. C’è un bambino in continuo bilico tra realtà e immaginazione, figlio unico, che rifiuta il cibo perchè è convinto che tutti i bambini vengono messi all’ingrasso per poi essere ammazzati e mangiati. I tentativi dei genitori di spingerlo verso il cibo sono i più disparati, ma lui resiste, si procura il vomito ed espelle il nutrimento fino a quando in vacanza al mare incontra Lucifero, un bambino-teppista, con cui gioca a schiaffeggiare la gente in sella alle motorette. Esce dagli schemi pensati per lui, devia dalle regole, disobbedisce, e piano piano lo stimolo della fame si impossessa di lui fino a fargli fare grandi abbuffate. In famiglia tutti tornano ad essere tranquilli, perchè ciò che conta è mangiare, crescere. Non importa il come.
In “Orfanzia” il bambino che c’è in noi, soprattutto quello della generazione dei quarantenni di oggi, coetanei di Zontini, si risveglia, trova la propria immagine riflessa nelle grottesche vicende vissute dal protagonista. Trova dei genitori scontenti pronti a chiedergli ossessivamente se ha mangiato e mai a domandargli se è felice, a pretendere che superi le sue paura senza sforzarsi di capire da dove vengano, a buttargli addosso aspettative cui sente di dover corrispondere per non deluderli. Ed ecco che il bambino di “Orfanzia” ci diventa subito simpatico, anche quando è impacciato e incapace. Anche quando perde. Nel contempo ci avvolge un sentimento di velata tristezza (e di rabbia) per l’assoluta incomunicabilità del mondo adulto verso quello dei più piccoli, destinato a non essere visto.
Nel suo esordio letterario Zontini mostra di possedere l’abilità più importante per uno scrittore: saper avvicinare i personaggi al lettore e farlo con leggerezza, in questo caso giocandosi la carta vincente dell’ironia e del fantastico. Ne consegue che diventa sempre più difficile chiudere il libro e attendere il momento propizio per riaprirlo perchè le avventure tra reale e irreale del bambino senza nome ci prendono, ci incuriosiscono, mettono voglia di sapere come andranno a finire. Soprattutto fanno nascere la voglia di proteggere il bambino, quello del libro e quello che ancora un po’ rimane nascosto dentro di noi.