di Pasquale D’Anna
Un ragazzo che si toglie la vita è una sconfitta per tutti. Il suicidio di Michele Ruffino di Alpignano deve far riflettere sulla collettiva chiamata in causa che necessariamente deve essere messa in campo.
Non è il primo e non sarà certamente l’ultimo episodio del genere. La riflessione che mi preme fare è quella che riguarda il nostro ruolo di padri rispetto al dilagare di questi fenomeni.
Noi padri di oggi esistiamo ancora come padri?
Siamo troppo incerti, dubbiosi, esitanti? Non siamo più in grado di esercitare il ruolo che ci compete, quello di essere credibili e autorevoli? O forse non sappiamo più distinguere tra “autorevole” e “autoritario” e dunque, nel nome della nostra giovinezza “antiautoritaria”, abbiamo perso ogni autorevolezza? E tutti questi punti interrogativi che costellano la pagina che state leggendo non riflettono forse la paralisi e il tormento di un padre – non padre di oggi che non sa decidere, e non sa più imporsi?
Ma se non ci sono più padri, non sono forse figli nostri quei bulli repellenti, analfabeti e prepotenti che spadroneggiano nelle scuole come quella di Michele ad Alpignano?
E se spadroneggiano è davvero perché, come si dice, non sappiamo più trasmettere valori, non sappiamo più comunicare il senso del giusto e delle cose da fare, non sappiamo più proporre modelli di comportamento convincenti? Riusciamo ancora a suggerire la forza di un confine etico e culturale che divide ciò che è lecito da ciò che non lo è, la barriera che separa ciò per cui vale la pena vivere e le negatività distruttive di un desiderio informe che non riesce più a scegliere, a capire che alcune cose si possono fare e altre no, punto e basta?
Siamo sicuri che proprio questo è il punto, padri snaturati e imbelli? Oppure il vero problema è che non riusciamo, imprigionati nelle nostre paure, a stabilire una sanzione? Ecco, non dovremmo interrogarci dolorosamente sul fatto che non sappiamo, non vogliamo, non possiamo più sanzionare le cattive azioni dei nostri figli?
La sanzione non è forse la prova che crediamo alle cose che diciamo? Che non si tratta solo di trasmettere, parlare, spiegare, comunicare, ma anche di punire la violazione commessa di chi, macchiandosi di una piccola o odiosa infrazione sa che quel comportamento verrà prontamente sanzionato?
Il problema non è forse che non incutiamo più paura, padri inetti che non siamo altro? Che è facile dire “questo non si fa”, ma è difficile aggiungere “ se lo fai sono guai” e poi far seguire alle minacce dissuasive le adeguate pratiche sanzionatorie? E tutto questo lamento non è il solito, patetico, verboso, iperdubbioso sfogo di un padre spodestato, dopo aver tentato, anni e anni fa, di spodestare il suo?
Considerazioni, parole e pensieri che possono in qualche modo indicare una probabile strada da seguire. Per adesso resta l’angoscia dell’ennesimo fatto grave, inquietante e doloroso, unito all’amarezza nelle parole di Michele: “«Sai mamma, mi hanno lasciato da solo un’altra volta» l’allucinante epilogo di una vicenda di bullismo che forse poteva essere evitata. Un ragazzo che nella sua stanza scriveva lettere ad amici che non ha mai avuto, lo stesso ragazzo che in un giorno di fine febbraio cerca la pace che non ha provato facendola finita con un salto nel vuoto. E quando muore un ragazzo di diciassette anni non ci sarà mai un giorno di tregua per chi rimane.