di Gianluca Spera
Se, come si dice banalmente, Sanremo è lo specchio del Paese o, peggio ancora, l’autobiografia della Nazione allora c’è da essere veramente preoccupati. Quella che è andata in scena sul teatro dell’Ariston è stata una recita triste, prevedibile, ridondante e assai noiosa: il trionfo della stucchevolezza, l’apoteosi del luogo comune, la fiera delle banalità politicamente corrette infarcite da una serie estenuante di sermoni. La performance peggiore è stata sicuramente quella di Fiorello che non ha ben chiaro il concetto di satira e ha preferito rifugiarsi nel comodo moralismo sanitario o nella riverente standing ovation finale.
Altro protagonista negativo è stato Achille Lauro che è arrivato alla provocazione con cinquant’anni di ritardo scambiando Sanremo per Woodstock, come se Lou Reed o David Bowie (giusto per citare i primi che mi vengono in mente) non fossero mai esistiti. Pure il rito potenzialmente blasfemo è del tutto depotenziato in una società per fortuna secolarizzata. Forse Lauro non ricorda la spallina di Patsy Kensit che scivolò durante una sua esibizione del 1987 oppure i Placebo che spaccarono la strumentazione sul palco dell’Ariston o anche Federico Salvatore, che in un’epoca in cui l’omosessualità era ancora tabù, cantò un testo molto coraggioso su un figlio rinnegato per le sue preferenze sessuali. Senza considerare Piero Pelù, nella sua fase ribelle con i Litfiba, quando ricoprì il microfono di Mollica con un preservativo a un concerto del primo maggio di un po’ di tempo fa.
Questa roba, invece, appare come una finzione, un compromesso alla vecchia maniera democristiana per dimostrare che la società si è evoluta quando, invece, tutto è recintato, perimetrato, irreggimentato nei binari del manierismo nazional-popolare. Perciò, Amadeus alla fine non è altro che un Pippo Baudo 2.0. Il secondo rimanda ai tempi del pentapartito e a un Paese perfino meno ingessato, il primo invece mette in scena la kermesse (sempre meno canora e sempre più avanspettacolo ideologizzato) ai tempi delle larghe intese, della rielezione di Mattarella, insomma della normalizzazione di un Paese che non sa cambiare perché non vuole cambiare o forse non può cambiare. Un Paese affezionato allo status quo, al suo spettacolino di metà inverno che ormai è una combinazione tra X-Factor e Amici con qualche vecchia gloria a ricordare i bei tempi che furono quando sulla ribalta c’erano Toto Cotugno, il Totip e il CAF.
C’è addirittura chi, come per esempio Massimo Giannini, ha visto in questo Festival qualcosa di rivoluzionario. Probabilmente, per alcuni, la restaurazione induce all’entusiasmo e alle iperboli più assurde. Tuttavia, al popolo piegato da due anni di emergenza sanitaria, Sanremo è piaciuto con tutte le sue contraddizioni, le sue distorsioni e le sue idiosincrasie. Il popolo vuole Sanremo. E allora dategli Sanremo. Tutti nel recinto del conformismo. Panem et Sanremo. Amen.