di Gianluca Spera
Pasolini scrisse che il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. Parafrasandolo, si potrebbe azzardare che Maradona è l’ultima rappresentazione sacra del calcio. Lo hanno attestato le manifestazioni di questi giorni, le incessanti processioni laiche allo stadio San Paolo pronto a tramutarsi in Maradona Arena, ai Quartieri Spagnoli dove sorge il murale che lo ritrae fiero e valoroso tra le mura sbrecciate di palazzi antichi, l’enorme folla che si è accalcata alla Casa Rosada per porgere l’estremo saluto all’eroe omerico.
Tutto il mondo è ancora in lutto. Non riesce a disturbare la commemorazione collettiva nemmeno qualche voce fuori dal coro, i particolari inquietanti sulle ultime e tormentate ore del fuoriclasse argentino, la disputa sull’eredità, le celebrazioni posticce, né l’atteggiamento controcorrente di qualche vip, o presunto tale, con la puzza sotto il naso o gli insulti gratuiti di gente fuori dalla grazia degli déi.
Forse è proprio questo l’ultimo “miracolo” di Diego: aver riunito le persone in un momento in cui è necessario rispettare il distanziamento e la pandemia sta disumanizzando i rapporti. La veglia ininterrotta ha restituito un barlume di normalità a un’umanità sempre più disorientata e terrorizzata. È stata la morte che, paradossalmente, ha riportato la vita nei vicoli, nelle piazze, nei luoghi di aggregazione.
Peraltro, come succede ai più grandi, il trapasso è la massima celebrazione della loro esistenza, l’apoteosi delle loro gesta e, in questo caso, tutti gli altari dedicati a Diego sono il monumento alle sue imprese calcistiche. Ognuno che ha portato un cimelio, una sciarpa, una bandiera, una foto ha creato il suo Diego personale, riproducendo l’attimo che più lo lega al campione, il momento in cui si è realizzata quell’innegabile affinità elettiva tra il fuoriclasse e il popolo.
E forse, alla fine, Diego Armando Maradona è stato la somma di tutti questi Diego che adesso rinascono, si fondono, si riuniscono, si rimpongono come i pezzi di un puzzle, si sovrappongono fino a costruire un patrimonio collettivo, l’icona che ciascuno ha venerato a modo suo e adesso viene resa immortale in tutto il pianeta. In nome di Diego e di tutto quello che ha rappresentato e incarnato col pallone tra i piedi.