di Alfredo Carosella
È nota l’espressione secondo la quale gli italiani sarebbero stati un “popolo di poeti, santi, navigatori”. Forse non tutti sanno che la formula è un po’ più lunga e recita: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”, è incisa sul Palazzo della Civiltà a Roma ed è tratta da un discorso di Benito Mussolini.
Ci sarebbe molto da dire riguardo alla qualità di trasmigrare, di spostarsi in massa dal proprio paese, ma l’argomento che qui si intende trattare è un altro.
È sempre rischioso e inesatto provare a definire quali siano le caratteristiche di un popolo: rischioso perché definire un insieme significa chiuderlo, separarlo dal resto, stabilire un “noi” e “gli altri”, la lista dei buoni e quella dei cattivi; inesatto perché, per nostra fortuna, siamo così diversi gli uni dagli altri che risulterebbe impossibile – o sbagliato, appunto – provare a definire i requisiti necessari per essere identificati come appartenenti a una determinata popolazione.
Basti pensare a etichette quali “terroni”, “pizza, spaghetti, mandolino” o ai cori da stadio contenenti elementi di discriminazione territoriale e razzismo.
Ci sono anche illustri esempi cinematografici, come lo scambio di battute in “Good Morning Babilonia” dei fratelli Taviani tra il regista Griffith e due restauratori italiani emigrati in America:
- Italiani, bugiardi, scansafatiche, pancia al sole e mani sulla pancia.
- Siamo i figli dei figli di Michelangelo e di Leonardo. Di chi sei figlio tu?
Potrebbe essere interessante chiedersi quali tratti caratteristici definirebbero la popolazione che abita oggi in questo Paese dove, su 59 milioni di abitanti, l’8,5% è costituita da stranieri provenienti da ogni parte del mondo.
Sul social network più amato dalle persone di mezza età fioriscono gruppi dal nome “Sei di tal posto se…”. È un gioco simpatico, spesso basato sulla profonda conoscenza della propria città, delle attrazioni, tradizioni e piatti tipici del posto.
È in voga un altro genere di catalogazione riguardo alla quale potrebbe essere utile soffermarsi a riflettere: “Fine del lavoro di … e inizio del lavoro di…”. Si tratta di un modo, non sempre giocoso, di prendere in giro i tuttologi dei quali, in effetti, non se ne può più.
Da un lato c’è il tentativo di limitare la diffusione di false o errate informazioni, dall’altro c’è l’imperdibile occasione di sbeffeggiare o, a volte, aggredire chi non la pensa come noi, di essere divisivi su qualunque argomento a prescindere dalla sua importanza per la sopravvivenza dell’umanità: dalla guerra atomica all’ultima canzone dei Persiana Jones.
Dopo essere stati tutti poeti, santi e navigatori, siamo diventati tutti allenatori della nazionale di calcio e della propria squadra del cuore. Con l’avvento della piazza virtuale ci siamo lanciati in esternazioni riguardanti gli argomenti più disparati: i vaccini (tutti virologi!), il successo di un gruppo rock (tutti esperti musicali!), la frana a Ischia (tutti geologi!). Gli esempi potrebbero essere tanti.
Può darsi che un certo tipo di politica abbia favorito il diffuso convincimento che tutti possano fare tutto. Nel 2018, ad esempio, su 658 parlamentari avevamo due agricoltori, due operai, due artigiani, cinque professionisti del mondo dello spettacolo, due magistrati, sette ricercatori e appena diciannove funzionari di partito. Sul podio di questa speciale classifica c’erano gli avvocati (86), gli imprenditori (69) e gli impiegati (60).
La parola andrebbe data solo agli esperti? La risposta esige cautela.
Con lo strumento dei referendum gli italiani sono stati chiamati a scegliere il tipo di governo, tra monarchia e repubblica; poi, tra il 1974 e il 2022 agli elettori sono stati sottoposti 72 quesiti – 39 dei quali hanno raggiunto il quorum – su temi delicati quali il divorzio, l’aborto, l’energia nucleare, il soggiorno cautelare, la responsabilità civile dei magistrati, tanto per citarne qualcuno. Tutti coloro che si sono recati al voto erano ben informati riguardo ai quesiti referendari? Lo stesso potremmo chiederci per le elezioni politiche. Eppure, ognuno è libero di votare per chi gli pare, e meno male!
Sarebbe quindi auspicabile una maggiore formazione e informazione, soprattutto per chi è chiamato a prendere decisioni che riguardano la qualità della vita degli altri. Per il resto, ognuno dovrebbe sentirsi libero di esprimere la propria opinione se non ha intenti dolosi.
Nel suo primo film Nanni Moretti gridava “No, il dibattito no!” (Io sono un autarchico, 1976), per sfuggire al noioso dibattito che doveva scaturire dopo uno spettacolo teatrale. I dibattiti richiedono tempi e luoghi adatti, ma almeno due parole ce le possiamo scambiare senza paura?