di Rosario Pesce
Ormai, nel nostro Paese, come in molti altri invero fuori dall’Europa occidentale, la politica coincide con la ricerca sfrenata del leaderismo nella forma più ridondante possibile.
Un tempo, i partiti erano espressione di una marcata identità culturale, per cui le stagioni politiche erano molto meno vincolate all’espressione di una leadership di quanto non sia oggi.
Si era democristiani a prescindere se il Segretario fosse Forlani o De Mita, come si era comunisti prescindendo da Natta o Berlinguer.
Purtroppo, nell’attuale fase storica le cose non stanno allo stesso modo.
Si segue il leader di turno, per cui se lo stesso dovesse organizzare una scissione, si intraprende quella strada, sapendo bene che si è sposato un uomo, piuttosto che una bandiera o un valore precipuo.
La personalizzazione della politica – perché di questo, in estrema sintesi, stiamo parlando – è il male più evidente di questi tempi, visto che condanna i partiti ad essere residuali nell’agone istituzionale.
Il primo, che in modo molto convinto aprì una strada simile, allo scopo di sconfiggere la partitocrazia degli anni Settanta ed Ottanta, fu Marco Pannella: infatti, i Radicali – per primi – abbandonarono il loro nome storico e, nel simbolo delle proprie liste, esordì il cognome del leader, da cui la stessa lista prendeva appunto le mosse.
Poi, su quel percorso si sono incamminati Berlusconi, Dini, Segni fino ad arrivare, oggi, a Renzi che, creando Italia Viva, ha di fatto dato vita all’ennesimo partito personale, che legherà le proprie fortune a quelle del proprio fondatore, per cui rimarrà in vita fino a quando l’ex-Premier avrà consenso nella pubblica opinione nazionale.
Un simile processo, che quindi nel nostro Paese è più che ventennale, fa bene alla democrazia?
Certo che no, visto che, legando il consenso ad una leadership, si elimina il ruolo dei partiti, che divengono meri comitati elettorali, legati in modo indissolubile alla forza – politica ed economica – di questo o quel protagonista delle istituzioni.
Ed è ovvio che, se un simile processo può avere un senso quando si discute del livello locale, come per l’elezione dei Sindaci, lo stesso rischia di divenire pericoloso quando la discussione si trasferisce al livello nazionale, essendo in gioco interessi e valori ben più importanti e fondativi per l’intera comunità nazionale.
Per sconfiggere – dunque – il male dei partiti corrotti della Prima Repubblica, abbiamo eliminato i partiti stessi: forse, la terapia somministrata è stata ben peggiore del male che si voleva curare, visto che, peraltro, per tal via la corruzione non è stata eliminata dalle pubbliche istituzioni?