di Ornella Esposito
Il 16 ottobre scorso in Conferenza unificata Stato-Regioni-Enti Locali è stata approvata la ripartizione del Fondo volto a finanziare progetti di costruzione, ristrutturazione e messa in sicurezza di asili nido, scuole dell’infanzia e centri polifunzionali oppure di riconversione di spazi inutilizzati delle scuole dell’infanzia.
“Il Fondo – si legge nella nota ufficiale diramata dal Dipartimento per le politiche della famiglia – stanzia complessivamente 2,5 miliardi di euro a partire dall’anno 2021 e sino al 2034. Per il primo quinquennio di interventi (2021-2025), il decreto destina 700 milioni di euro“.
L’intento – dice sempre la nota – è quello di rimuovere gli squilibri economici e sociali esistenti nelle aree svantaggiate del Paese e nelle periferie urbane carenti di servizi.
Questa è una good news. Ma leggendo l’articolo a firma di Marco Esposito apparso sabato 17 ottobre su «Il Mattino», chi vive al Sud scopre che c’è poco di cui gioire. Con il suo consueto rigore il giornalista – esperto sul tema del regionalismo differenziato – ci spiega che nel decreto di riparto sono stati inseriti alcuni trucchi per i quali “Modena, Sondrio e Verbania sono considerate periferie degradate al pari di Taranto o Palermo” o che “rientrano nei territori da favorire per costruire asili nido luoghi già ben dotati di servizi come Modena, Reggio Emilia e Bologna. O piccoli centri come Verbania. Grandi comuni come Milano, Torino o Genova sono in elenco senza alcun criterio per proporzionare gli aiuti rispetto a città del sud prive o quasi di servizi per l’infanzia“.
Dunque, stando alla documentata analisi di Marco Esposito, un comune come Napoli o per esempio Casoria, con le sue periferie problematiche, mortificato da una scarsa offerta di servizi per l’infanzia, riceverà più o meno gli stessi soldi di un comune dove la qualità della vita in termini di opportunità di luoghi di crescita per genitori e figli rispetta gli standard.
Ma gli asili nido, i servizi per l’infanzia, i centri polifunzionali a cosa servono? Servono almeno a due cose.
La prima, a garantire alle donne, su cui gravano maggiormente i carichi familiari, pari opportunità nell’accesso al lavoro e alla vita sociale. La seconda, ad offrire spazi educativi qualificati a bambini di una fascia di età delicata, quella in cui si costruiscono le basi per la loro buona crescita futura. Non bisogna necessariamente aver studiato alla Tavistok Clinic per capire quanto sia importante per un bambino piccolo vivere in un ambiente accudente e gioioso, quanto sia necessario sostenere genitori claudicanti, o magari solo stanchi e indaffarati, rendendo loro disponibili luoghi in cui i figli possono sperimentarsi, confrontarsi, perfezionare il linguaggio, introitare le regole, riconoscere le emozioni. E ancor meno difficile è comprendere quanto nelle periferie degradate, come le definisce il decreto di riparto, i servizi per l’infanzia rappresentino un vero e proprio avamposto della legalità, uno strumento privilegiato per la prevenzione precoce al disagio sociale, educativo e culturale. Ergo quanto siano vitali per combattere la povertà educativa.
Ed ecco che la notizia di un’evidente sproporzione nel riparto di un fondo così importante, aggravata magari da una labile protesta dei rappresentanti delle regioni del sud, è una bad news. Perché anche l’efficacia di altri interventi sociali, quelli programmati ad esempio nel piano sociale di zona come l’assistenza educativa domiciliare, viene svilita se il territorio è scarno di risorse a cui agganciare la famiglia che con sforzo ha vinto la paura e la sfiducia e ha spalancato le porte della propria casa a un tutor-educatore. Perché i territori difficili possono cambiare volto solo se arricchiti da una molteplicità di servizi che idealmente si muovono all’unisono per sostenere una famiglia fragile. Perché così facendo il Sud e i suoi bambini continueranno a restare indietro. Perché come canta Enzo Avitabile “tutt’eguale song ‘e criature nisciuno è figlio de nisciuno“.