di Anna Iaccarino
Quest’anno per la prima volta la mia vacanza ha avuto soprattutto i giorni di luglio nell’incanto di Ischia, tra mare, escursioni e relax in natura. Poi a parte qualche fuga fuori città, agosto l’ho vissuto (per scelta) incontrando e attraversando la mia Napoli.
Ebbene ancora una volta non si è smentita nel suo arcobaleno di colori, mille anime in essere. Tuttavia non voglio fermarmi sulla bellezza mozzafiato, sulla storia, arte e cultura dell’indiscusso patrimonio (che pure ho vissuto) né sui disagi, problematiche, disfunzioni di servizi (che pure ho altrettanto vissuto) sebbene di una terra per gran parte fucina di risorse e di impegno del fare, ma sulle pieghe nascoste di alcuni stralci di vita che ho colto.
Ovvero la solitudine gentile e silente, dei tanti anziani, che ho incrociato seduti su panchine, muretti, piccole sedie improvvisate al riparo dal sole cocente. Un’umanità in cerca di segnali di esistenza, di riempitivi di vuoto, di occhi e voci che semplicemente li vedessero e magari li salutassero con due sole parole buttate lì.
E che agosto, dove tutto si ferma, rende ancora più spoglio e nudo.
Una realtà che ancora non pervade alcuni quartieri partenopei, ovvero quelle territorialità dove ancora resiste quello spirito di condivisione allargata e di considerazione del vecchio di famiglia. Ma che aumenta sempre più in altre aree cittadine, come peraltro in tutto il paese italico, con modelli comportamentali al grido vincente di “forte, bello e produttivo” determinando così una generale assoluzione di coscienza sulle necessità imposte dalla modernità dei tempi.
Velocità, tempismo, plurinteressi, viaggi, traguardi, successo. Un quadro perfetto che non prevede sbavature, intralci, ritardi. E la vecchiaia che è l’elogio alla lentezza e spesso mutamento in corpi sospesi, malfermi, ne rappresenta il primo baluardo da saltare, da mettere in un angolo, possibilmente senza presenza che chiede.
Memoria da custodire per indotto da appartenenza di sangue, e non invece come ricchezza di vita donata e vissuta, come radice di quella nascita e crescita che ha accompagnato il cammino di chi siamo.
Anziani lasciati come isole senza mare in cui devono provare a nuotare, e zittirsi quando i salvagente non sono disponibili perché le priorità di famiglia sono altre.
Questi giorni d’agosto, sia pure per flash di vite sfiorate, sono stati molto vicini allo specchio riflesso di tutto questo, e mai silenzio fu più assordante delle testimonianze mute di abbandono che ho avvertito sulla pelle in quei momenti di arsura.
La città vuota in fuga verso il mare, per poi popolarsi la sera di luci, spettacoli, iniziative, allegria di giovani in festa. E gli anziani, tanti, soli, sparsi, spettatori di quel lungo tratto intermedio dal mattino fino al pomeriggio, bruciante di calore, in attesa del passar delle ore e del suono di qualche passo che li facesse sentire in compagnia prima del calar della sera, quando su quei gradini non ci sarebbe più stato spazio per loro e la stanchezza avrebbe cominciato ad avviarsi verso casa.
Non era la prima volta che mi soffermavo su questa fase di vita, su quella coltre d’invisibilità (che non riguarda solo l’estate) in cui a un certo punto dell’esistenza si ritrovano relegati molti anziani, quelli “diventati” soli con forze economiche minime, e quelli senza il prestigio del ruolo sociale. L’avevo fatto anche tempo addietro con versi dedicati, ma stavolta era stato diverso, li avevo “visti”.
Ed allora tra i tanti svaghi estivi (che da privilegiata mi ero potuta permettere) ho provato a ritagliare piccoli spazi di me per tessere qualche flebile linea di contatto con alcuni tra quegli occhi persi. Tra quei volti indistinti in attesa di una fiammella, quelle teste sfolte e imbianchite piene di paure e bisogno d’amore, ascoltandone aneddoti e sorrisi di quei tempi lontani di vita vissuta, che oggi chiedevano soltanto di essere visibile ai ricordi del cuore.
E loro che ridenti e straniti sfioravano piano quella mano tesa, schivi e lievi per non lasciare rumore, perché come canta il poeta dei poeti nel “Sogno di Maria”
“I vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte”.
Probabilmente anch’io ne conserverò memoria corta, presa dalla presunzione dei miei ritmi sacrosanti e intoccabili, ma di una cosa sono certa, lo sguardo non sarà più quello di sempre quando mi imbatterò di nuovo nello stupore candido e nudo di un’essenza di vita che merita rispetto.
La vecchiaia non è facile, ma è vita che si racconta. Impariamo ad ascoltarla, perché (se ci va bene) toccherà anche a noi essere spettatori in attesa di un gesto d’amore.
Un mio componimento in versi del 2019 reinserito nel mio nuovo libro
“Di vita e frammenti” (Guida Editori – 2021)
Quel bianco pieno d’amore
Eri lì, come ogni giorno
su quella panchina al sole e al vento
bramando saluti sconosciuti
aspettando gentilezze rubate.
Occhi stanchi, mani tremanti,
sorriso che chiede sguardi,
bocca che cerca parole.
Sei solo un vecchio
oggi è questo il tuo nome,
non hai più storia, né voce.
Una sagoma a cui passare accanto
un fardello da evitare.
Il tempo non ti appartiene più
sfiori la vita con imbarazzo
sai che per gli altri
è una pretesa ormai assurda.
Tutto quello che sei stato
non esiste più e mai più sarà,
non ti è concesso di sperare
neanche nei ricordi del cuore
o nel flebile sogno di ingannare un’attesa.
Devi capire e in silenzio andartene,
lasciando tutti finalmente liberi
e infinitamente poveri dell’amore tradito.