Lo sciopero di ieri del comparto scuola ha riscosso un successo, in termini di partecipazione, davvero straordinario: mai, infatti, almeno nel corso degli ultimi venti anni, i docenti italiani avevano aderito in modo così significativo ad uno sciopero indetto, peraltro, congiuntamente da tutte le sigle sindacali, a dimostrazione di quanto avvertita fosse dai professori la tematica al centro della piattaforma programmatica, rivendicata da Cgil, Cisl, Uil, Snals e Cobas.
Evidentemente, tale vittoria del mondo sindacale segna la sconfitta del Governo che, su una materia delicata, come la gestione del settore della Pubblica Istruzione, ha dato prova plasticamente del fatto che il suo piano di riforma non sia stato concordato con quanti, poi, dovranno realizzarlo concretamente.
È la prima volta, nel nostro Paese, che un Governo di Centro-Sinistra entra così apertamente in contrasto con una categoria di lavoratori, che ha sempre fatto parte della sua base sociale di riferimento.
Inoltre, sorprende il fatto che il Premier, per nulla colpito dall’altissima partecipazione, abbia sostanzialmente dichiarato che comunque andrà avanti, perché la Scuola italiana ha bisogno di un mutamento radicale, che la possa collocare allo stesso livello di quella europea.
Le intenzioni sono, certamente, molto buone: bisogna, però, valutare nel concreto le scelte, che vengono messe in piedi, per capire se, poi, da queste scaturiscono effetti positivi o se, purtroppo, come spesso capita, la soluzione non è peggiore del male, che pure vorrebbe eradicare.
Il punto centrale della disputa fra Sindacati e Governo è un principio, che entrerebbe in vigore, per la prima volta, nel nostro ordinamento scolastico, visto che non è mai esistito sin dai tempi dell’Unità nazionale: la chiamata diretta dei professori da parte dei dirigenti scolastici, sia in riferimento ai precari, che ambiscono alla stipula del contratto a tempo indeterminato, sia in riferimento ai docenti già di ruolo, che invece formulano domanda di mobilità, cioè di trasferimento o di passaggio di ruolo o di cattedra.
Sappiamo bene come questa metodologia, esistente in alcuni Paesi di cultura anglosassone, sia estranea alla nostra tradizione, visto che, anche per effetto di un valore sancito solennemente dalla Costituzione, i docenti possono salire in cattedra solo se hanno superato una procedura concorsuale e, quindi, in funzione di una posizione utile, che essi hanno conseguito nella graduatoria formulata a seguito della selezione, cui hanno partecipato.
È evidente che le graduatorie garantiscono tutti, sia i dirigenti, che sono i datori di lavoro e rappresentano la parte pubblica, sia i docenti, che sono gli aspiranti ad un posto di lavoro, che regala grandi gratificazioni da un punto di vista morale e professionale, ma – invero – un po’ meno, forse, da un punto di vista strettamente economico.
Orbene, la graduatoria sottrae il dirigente, che deve procedere all’assunzione del personale scolastico, a margini di discrezionalità, che talora sono ampiamente legittimi, ma in altri casi possono essere tacciabili di eccessivo potere autocratico, oltre i limiti finanche del giusto perseguimento dell’interesse legittimo, cui dovrebbe – invece – ambire qualsiasi funzionario o dirigente dello Stato, che produce atti in nome e per conto della Pubblica Amministrazione, rispondendo con il proprio portafogli, con la propria prospettiva di carriera e con la propria libertà personale in caso di comportamento sanzionabile disciplinarmente, penalmente e civilmente.
Naturalmente, molti potranno obiettare, sottolineando che, se il sistema della chiamata diretta funziona in Inghilterra o negli Usa, perché non dovrebbe succedere la medesima cosa, anche, da noi.
È ovvio che un’obiezione simile si presta a mille possibili risposte, ma, in questa sede, ci preme sottolineare un aspetto dirimente: la qualità della scuola dipende, effettivamente, dai criteri di selezione del personale docente?
Ogni docente può essere più o meno bravo nel condurre il suo mestiere, ma ineluttabilmente i risultati dell’azione didattica dipendono da moltissimi fattori, fra i quali il valore professionale del professore è uno, forse, dei più importanti, ma in verità non è l’unico e, molto probabilmente, non è neanche il principale, visto che – come sanno coloro che, ogni giorno, si cimentano con la didattica – il frutto del lavoro intellettuale è funzione di diverse variabili, alcune delle quali sono, finanche, difficilmente quantificabili.
Peraltro, una verità pure dobbiamo dircela: nel corso dell’ultimo ventennio, molte responsabilità sono state scaricate sulla scuola pubblica italiana, per cui essa è divenuta l’alibi per giustificare comportamenti, sociali ed istituzionali, che meriterebbero, invero, di essere emendati, ma, con altrettanta onestà, non possiamo non sottolineare come le risorse pubbliche siano andate progressivamente scemando, per cui, se non ci fosse l’aiuto dell’Unione Europea, davvero si farebbe fatica – in molti casi – a portare a termine un’attività didattica che abbia, almeno, un valore culturale riconoscibile.
Pertanto, ci è sembrato ancora più ingenuo l’atteggiamento di chi, intervenendo su un unico fattore, per quanto importante esso sia, pensa così di rovesciare le sorti della Scuola, che, finora, ha conosciuto molte bozze di rivoluzioni copernicane, anche se, purtroppo, ad ogni svolta – ritenuta, a torto, epocale – è maturata la percezione di un processo che rimaneva incompleto e che andava, ulteriormente, perfezionato.
L’ultimo di questi processi è quello afferente all’introduzione del regime dell’autonomia funzionale, che, nata alla fine degli anni ’90, per ammissione di tutti gli operatori, scolastici e politici, è – tuttora – un cantiere aperto: in tal senso, il mutamento dei criteri di selezione della classe docente vorrebbe essere, negli intendimenti del legislatore, il tassello che va a completare quel processo, rimasto incompiuto.
Ma, siamo per davvero sicuri che l’autonomia scolastica raggiungerà il suo fine ultimo, se i presidi (o i Consigli d’Istituto) chiameranno i docenti da albi, piuttosto che da graduatorie codificate da decenni?
La risposta ci appare esposta ad un margine di dubbio molto alto, visto che, se è vero che la Scuola è, in qualche modo, un’azienda a capitale pubblico, è anche altrettanto vero che trattasi di un’azienda anomala, che produce un prodotto particolare, che non può essere parificato ai tradizionali meccanismi della produzione industriale: la cultura e la divulgazione del sapere, che, per definizione, devono essere sottratte a qualsiasi arbitrio, finanche quando questo può apparire legittimo ed auspicabile, se è espressione del pensiero di una mente illuminata e conoscitrice – effettivamente – dei problemi, come è quella di moltissimi dirigenti scolastici italiani, attualmente, in servizio.
In tal senso, sarebbe giusto che Renzi ed il PD, che ormai sono sempre più la medesima cosa, si fermino un attimo e riflettano seriamente con i Sindacati sulle azioni, che vanno messe in essere per migliorare un servizio, che, per quanto possa presentare obiettive problematiche, è pur sempre il migliore fra quelli offerti dalla complessa Pubblica Amministrazione italiana.
D’altronde, la Scuola, rispetto ad altri comparti (la Sanità, ad esempio), ha sempre avuto nel nostro Paese un margine di autonomia – questa volta, effettiva – dal potere politico, per cui il comparto scolastico è stato quello meno condizionato da infelici dinamiche politicistiche, contrariamente ad altri, dove invece la politica – nazionale e regionale – l’ha fatta, tragicamente, da padrona.
Non vorremmo che, per mutare i criteri di selezione della classe docente e per introdurre la valutazione della stessa, si rinunciasse a tale virtuosa autonomia, che potremmo definire prima culturale e, poi, ordinamentale.
Se, infatti, la Buona Scuola rappresenta il tentativo, peraltro assai mal celato, di riportare l’Istruzione sotto l’egida della politica, allora lo sciopero di ieri non solo è stato utile per mobilitare i professori, ma ne sarebbe finanche auspicabile un’eventuale ripetizione, tanto più qualora il legislatore non dovesse decidere di invertire il senso attuale di marcia.
Per tal via, in conclusione, un’ultima domanda, di ordine non strettamente scolastico, pure è necessario avanzare: perché Renzi, che è certamente un uomo assai intelligente ed acuto, ha deciso di mettere mano alla riforma scolastica alla vigilia di un appuntamento elettorale molto importante, come quello delle prossime elezioni regionali?
Forse, l’intervento sulla scuola vuole essere anche un segnale, di tipo meramente elettoralistico, per ambienti sociali, che mai hanno avuto cura della crescita dell’istruzione pubblica, visti i loro interessi cospicui nel comparto di quella privata?
Come diceva un protagonista italiano delle istituzioni del Novecento, a pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina.
Fuor di battuta, anche in tal caso, non potremo che auspicare un riavvicinamento sensibile fra le parti, ben sapendo che la Scuola italiana non si riforma né a colpi di decreti, né con il metodo della maggioranza semplice, come invece è stato fatto – in un modo che riteniamo fallace – per la legge elettorale e per la legislazione in materia di lavoro e di diritti dei lavoratori.