di Alessandro D’Orazio
Negli ultimi anni il sempre più diffuso utilizzo di applicazioni di messaggistica istantanea ha fatto in modo che questi sistemi siano divenuti appetibili non solo a tutta la platea degli utenti comuni, ma anche a coloro che utilizzano le chat per compiere, più riservatamente, atti illeciti. In particolare, il ricorso ad app quali, ad esempio, Telegram e Whatsapp ha raggiunto spesse volte un notevole grado di distorsione, tanto da far intervenire soventemente le autorità preposte. A dire il vero, però, Telegram e Whatsapp – storici rivali nelle infinite sfide per la supremazia tecnologica – divergono tra loro per una serie di caratteristiche che fanno protendere alcune volte per il primo ed altre volte per il secondo. Ad ogni modo, i due sistemi hanno qualcosa in comune che li rende allettanti agli occhi di persone senza scrupoli sospinte dalla voglia di assecondare i propri perversi istinti sessuali.
Queste chat diventano così il nascondiglio perfetto per chi non vuole farsi scoprire. Ed è a questo scopo che nascono gruppi di utenti ove vengono diffusi foto e video di donne in atteggiamenti intimi, senza il loro consenso. Al tema sono state dedicate molte attenzioni sia da programmi in onda su emittenti Mediaset (come, ad esempio, “Le Iene”) sia da testate giornalistiche come “Wired”. In alcuni casi peraltro sono stati utilizzati dei veri e propri infiltrati all’interno di queste comunità virtuali al fine di rilevare, per poi raccontare, fino a che punto possa spingersi la degenerazione di questi soggetti.
Nello specifico è stata rilevata l’esistenza di gruppi dai nomi evocativi; uno su tutti è quello del “Canile 2.0”, chat dove circola materiale di donne immortalate nella loro intimità e che dal 2016 ad oggi è arrivato a contare l’incredibile cifra di 2.300 iscritti. Trattandosi di un canale crittografato e non essendo dunque visibile agli utenti esterni, per farne parte, serve un invito di un membro che è già inserito.
A causa di una normativa non sempre al passo con i rapidissimi tempi della rete, le misure sanzionatorie in cui si incorre non sono spesso proporzionate alla gravità dei fatti (si pensi ad esempio all’enorme danno che un video o una foto diffusi in rete potrebbero cagionare ad una persona totalmente ignara). Una legge per punire il “revenge porn” – è questo il termine inglese per definire il fenomeno di cui si tratta – ancora non esiste in Italia. Inoltre, senza una denuncia di reato ben poco si può fare, se non appellarsi alla normativa sulla privacy. La questione dovrà per questo essere affrontata con maggiore approfondimento e chissà che una specifica proposta di legge non possa essere presto discussa dal nostro Parlamento.