Ricordiamo?

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di Elio Goka

A chi in silenzio ha subìto, subisce e subirà

Ogni volta in cui si cade nel disprezzo secondo condanne sommarie fondate su preconcetti e luoghi comuni, ogni volta che lo straniero è percepito e guardato come dispari ed estraneo al valore dei nostri diritti e delle nostre sensibilità, quando il disperato viene confuso con l’impostore, quando il margine diventa un luogo per cui si fa sopportabile la parola sopportabile, quando l’effetto di un grande privilegio restituisce i suoi drammi ed essi vengono sistematicamente respinti con ostilità, quando un credo, una fede, un’idea si sentono superiori, quando la parola superiore, anche da assente, eleva con arroganza, pure non rivelata, il peso del proprio pensiero, quando la condanna e la memoria si gerarchizzano, quando tutto questo si alterna o fa capolino, oppure subentra, consola e persiste, si fa rientro nella civiltà delle deportazioni e dei lager. Perché, pur facendo visita ai sepolcri delle vittime, la mente resta rivolta a quella dei carnefici.

È una riflessione probabilmente semplice, scontata. Eppure, non rievoca il mondo che ancora viviamo? Non è la profanazione del monumento a turbare, ma la ricaduta in quello che lo ha eretto a suo tempo. Non ha ragione a reclamare l’ammissione? Vale poco chiedersi se ci siano dittature, almeno in apparenza, a persuadere e a comandare sugli uomini per mano di altri uomini. No, non conta. Almeno, non più. Se poco e niente sia cambiato dal ritrovamento di milioni di ossa dentro i campi di sterminio, non è più in quello che si crede ci sia estraneo perché posto in posizione si supremazia. Non si tratta di desistere al potere. Si tratta di pensare rispetto a se stessi.

Oggi, in una maniera o nell’altra, attraverso un’azione, una parola scritta o pronunciata, o anche tramite un semplice gesto, si decretano le persecuzioni e le carcerazioni di massa. I prigionieri sono tutte le cose sconosciute o mal conosciute che infestiamo credendo che siano esse a fare altrettanto con noi. Educhiamo quello che osserviamo a odiarci perché si giustifichi l’odio che gli riserviamo di rimando. Un meccanismo insito e originario. Quello che si maledice è frutto di una pedagogia autonoma, isolata, asettica e indotta, invece che di un’esperienza concretamente ricca, profonda e significativa. Possediamo e attingiamo dalla frusta dell’aguzzino e non ce ne rendiamo conto.

La fine della guerra, a distanza di tre quarti di secolo, non ha concluso la guerra. L’equivoco è ancora vivo e insidioso. La fine di quel conflitto ha reso virale l’animo nero di quell’avvenimento. L’ha trasformato in microscopici batteri dopo aver moltiplicato le idee che lo avevano provocato e condotto fino a un’apparente distruzione. Il tempo ha solo trovato il modo di vestire tutto di una pace apparente, ma l’orrore è rimasto a sedimentare e ha messo nuove radici. Lo sbraito e il cinismo di certi discorsi ha soltanto rivisto i suoi punti, mentre, senza accorgersene, buona parte della platea allevava quel batterio a cui dare luogo a procedere. In mezzo a quella platea sono in tanti a reclamare chi dia corpo a quello che si urla a squarciagola, mentre altri diffidano in silenzio di ogni possibilità di ritorno a una migliore umanità. Altri, ancora, assistono o si arrendono consolandosi coi favori del privilegio.

Quella tragedia, che una legge ha eletto a monito generale, ma che, di fatto, nella storia ha anticipato e poi ripetuto i segni disumani di quegli accadimenti, quella tragedia che può solo destare il ringraziamento tra sé e sé per non essere stati lì o negli altrove che la replicano, parla e agisce. E non da sconfitta. Il grande istante che molti chiamano storia, probabilmente, non si ammala e non guarisce. Tra sollievi e recrudescenze, ha solo la crudelissima necessità di restare fedele a se stesso. E non ci sono leggi, omaggi o maniere alcune che ci convincano realmente a contemplarlo nella sua essenza tragica. Un intorno avvolgente e vastissimo fa sì che la vita quasi vi coincida. Quale atroce similitudine. Il ricordo altro non è che un’illusione. Ricordare deriva da cor cordis, cuore, il luogo che un tempo veniva considerato sede della memoria.

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