di Alfredo Carosella
Cosa hanno in comune gli ultrà della politica, i seguaci di certe presunte veggenti e i followers degli influencer? Il bisogno di credere in qualcosa o qualcuno e di delegare le proprie scelte.
La delega politica è insita nell’esprimersi dei cittadini attraverso il voto, ma qui il riferimento è a quei particolari gruppi di elettori che seguono il proprio leader con poca oggettività: ultra è l’abbreviazione di ultrarévolutionnaire, ultrapatriote, che, durante la Rivoluzione francese, indicava chi spingeva all’eccesso la propria ideologia politica.
Nel linguaggio giornalistico sportivo indica i tifosi estremi, gli irriducibili.
Il fenomeno, presente ovunque nel mondo, è particolarmente evidente negli Stai Uniti dove Biden e Trump hanno vinto le rispettive primarie quasi ovunque, lasciando solo le Isole Samoa allo sconosciuto imprenditore democratico Jason Palmer e il Vermont alla repubblicana Nikki Haley. Non importa che Biden abbia 81 anni, abbia confuso l’Ucraina con l’Iraq, la Francia con la Germania, Macron con Mitterand. Non importa che Trump (77 anni) abbia definito “eroi” i suoi sostenitori che hanno assaltato il Campidoglio il 6 gennaio del 2021; che – come ha dichiarato in un comizio in South Carolina – non proteggerà da eventuali attacchi russi i Paesi Nato che non spendono il 2% del Pil per la difesa, mettendo in discussione l’art. 5 del trattato Nato. Un ex consigliere di Trump ha rivelato che, se dovesse essere rieletto, il magnate americano chiederà formalmente l’uscita degli Usa dalla Nato, per poi rivedere gli storici accordi di reciproca difesa con Corea del Sud e Giappone.
È chiaro come la minaccia di Trump vada a condizionare la politica di ogni Paese della Nato riguardo alle spese militari, con inevitabili ricadute negative per i fondi da destinare alla sanità, l’istruzione, la ricerca, la salvaguardia dell’ambiente, con buona pace della libertà di voto sancita dalla nostra Costituzione.
Eppure, circa 160 milioni di americani sceglieranno tra uno dei due anziani signori che hanno vinto le primarie grazie a folle di convinti e variopinti sostenitori, votando, con metodi stabiliti dai singoli stati federali, i “grandi elettori” che formano il Collegio elettorale degli Stati Uniti. Possibile che non ci fosse una valida alternativa da una parte e dall’altra?
C’è la disperata necessità di affidarsi a qualcuno che riesca a convincerci che ci sappia guidare, che ci possa salvare. Pochi giorni fa il vescovo di Civita Castellana ha messo la parola “fine” sulle presunte apparizioni della Madonna di Trevignano, in provincia di Viterbo. Eppure, alcune migliaia di persone sono state disposte a credere che la statuina portata da Medjugorie lacrimasse sangue e moltiplicasse gli gnocchi e le pizze per i tanti fedeli da sfamare.
Certo, tornando alla politica, potremmo citare il caso di quei 300 deputati che credettero che la famosa Karima El Mahroug, detta “Ruby Rubacuori”, fosse la nipote di Mubarak, ma questo non lo ricorda più nessuno, visto che – per quanto grave – si tratta di un episodio che non ha cambiato il destino politico del nostro Paese.
A guardare bene, lo stesso fenomeno accade con gli influencer. Il fenomeno di imitare, di cercare di vestirsi e acconciarsi come le persone famose, esiste da tanto tempo: chi ha vissuto gli anni ’80 ricorderà la moda di portare le t-shirt alla maniera di Miguel Bosè, di vestire come Anna Oxa, di portare i capelli come i divi del cinema. C’è una differenza sostanziale tra quell’epoca e i giorni attuali: prima si seguiva la moda lanciata da personaggi famosi del cinema, della televisione, della musica, da persone che svolgevano una professione o praticavano un’arte che li aveva resi celebri; oggi abbiamo delle persone che, per mestiere, dettano la moda del momento, consigliano un determinato prodotto, e – se nel fare ciò riescono ad essere particolarmente convincenti – diventano ricchi e famosi. Dopo il caso Balocco, pare che Chiara Ferragni abbia perso circa 490.000 follower degli oltre 29 milioni che aveva alla fine del 2023. Ne ha ancora un numero immenso, anche se il gradimento si misura in termini di reazioni più o meno positive. Il problema, semmai, è la fuga di alcuni grandi marchi che non vogliono più associare il proprio nome a quello della nota influencer.
Conta ancora qualcosa la capacità di essere percepiti come persone genuine che ispirano fiducia?
La Guardia di Finanza ha acceso i riflettori su 5 “digital creator” sconosciuti al fisco, “pizzicati” grazie ai contenuti che loro stessi hanno pubblicato attraverso i social network e su altri 4 noti influencer che avrebbero evaso tasse per 11 milioni di euro. Tra questi spicca il nome di Gianluca Vacchi che, in effetti, un mestiere – anzi, più di uno – ce l’ha; essere indagato per bancarotta e Vallettopoli, e aver subito un pignoramento per 10 milioni di euro, non gli ha impedito di avere 22,5 milioni di follower su Instagram. O, forse, è così seguito grazie al suo stile di vita?
Cosa dire, infine, dello youtubber che ha noleggiato un suv Lamborghini, lo ha lanciato a 120 km all’ora su una strada urbana, ha investito e ucciso un bimbo di 5 anni, ha patteggiato una pena di 4 anni e 4 mesi e ha evitato il carcere? È questo il mondo che vogliamo?