di Claude De Bray
“Io sono quel bambino con la faccia rotonda e sporca, che in ogni angolo ti infastidisce con il suo “mi dai una monetina?”
Io sono quel bambino con la faccia rotonda e sporca, certamente non voluto”
Reinaldo Arenas
Non esistono più gli scugnizzi, appartengono al passato, oggi abbiamo ragazzini di dodici anni che camminano con il coltello, frustrati, annoiati, avvelenati, e di certo non con la faccia sporca.
Non chiedono la monetina ma ti circondano in branco e ti chiedono portafoglio e telefonino, orologi e tutto ciò che, secondo i loro parametri, abbia valore.
Gli scugnizzi erano soltanto bambini, e da tali si comportavano.
Erano alla continua scoperta di tutto ciò che li circondava e costretti alla ricerca di espedienti.
Si lanciavano dal molo per dar spettacolo ai turisti che lanciavano monetine, li vedevi appesi ai tram, a fare il bagno dove era ritenuto sconveniente, incuranti della mutanda in bella vista.
Eh, chi avrebbe mai immaginato vederli tuffarsi nella vasca della Floridiana per poi fuggire all’arrivo dei guardiani o in quella piscina all’aperto di Piazza Municipio a me tanto cara che ora non esiste più e spero tanto di rivederla una volta terminati i lavori della Metro.
Sono ricordi certo, sono le mie origini stracolme di ricordi.
Erano la Napoli dei mille misteri e delle cento certezze.
Facevo filone a otto anni per andare a vedere i lavori della Via Aniello Falcone sprofondata e di cui leggenda racconti che abbia ingoiato un pullman intero mai ritrovato.
Napoli, quella dove esiste un posto per ogni cosa.
Le banane si dovevano comprare solo dalla “bananara”, perché a Napoli i mestieri si inventavano, simbolo iconico come la madonna, che stazionava perennemente a Montesanto scendendo la Pignasecca.
Il solo profumo era un invito e magari avevi la fortuna di incontrare “ò pà ò pa” che potevi trovarlo a Via Scarlatti un attimo prima e poco dopo percorrere lo Spaccanapoli.
Leggende, solo leggende per chi non le abbia mai vissute, come “ O’ Furtunate venne a robba bella “.
Io che andavo a Materdei, da “Starita” per comprare l’impasto delle pizze quando non era tanto rinomato come ora e da “Nennella” quando era veramente un’osteria ed abitavo a Vico della Tofa.
Lungo il tragitto mi fermavo da Celeste il salumiere e poi alla cantina posta di fronte; aveva quelle strane bocche dal quale sgorgata il vino… bianco, rosso, frizzante, di Gragnano.
Non c’era un solo rubinetto che chiudesse bene e le antiche mattonelle mostravano i segni di quelle gocce perpetue che avevano scavato il marmo e colorate di un rosso porpora.
Vico Teatro Nuovo, Vico Giardinetto e mi fermavo a comprare le alici se erano piccole o i “fravagli” di triglia o telline e vongole.
Facevo la spesa e solo dopo andavo da Nennella, mi chiamavano il trovatello; gli davo il sacchetto della spesa e mentre aspettavo, per antipasto, mi davano pasta e patate.
Quel che compravo era sufficiente per tre, quattro persone ed i figli, ora gestori di una trattoria alla moda, mangiavano insieme a me.
Ero uno scugnizzo per necessità, quasi sempre cresciuto da solo a causa del lavoro di mia madre e non è che fossi un grande chef; il massimo che sapevo fare era la pasta con il ragù star e due uova a tegamino.
Però se avessi voluto lo sfilatino con la ricotta di “fuscella” sapevo dove andare, alla ferrovia; ed era magia vedere quel piccolo cestino di vimini intrecciato schiantare la ricotta dei poveri in quello sfilatino mignon che pigiato sapientemente spalmava alla perfezione la ricotta.
La pizza fritta era assolutamente da mangiare delle “Figliole” a forcella per poi andare all’angolo di Castel Capuano che si incrocia con Via Carbonara.
Non c’era chiosco migliore per quel succo di limone e bicarbonato per digerire la pizza fritta, anche questa era una magia; vedere la spuma insorgere, strabordando, dal bicchiere e dovevi intraprendere una sfida, dovevi cercare di anticipare l’evento che era una cosa da sim sala bim, come era da stupirsi vedere quell’uomo perennemente seduto che doveva pesare almeno centocinquanta chili come se fosse già nato così e come se quello fosse l’unico luogo dove potesse esistere, quasi una figura mitologica tra il Budda ed i lottatori di sumo.
Ad onor del vero c’erano altri due chioschi che ho sempre amato; il primo stava a Via Foria “O’ Mericane”, non riuscivo a non fermarmi se con la vespa percorrevo Via Foria per un chinotto rigorosamente con l’otto o la premuta, come pure quello poco distante dal Cinema Metropolitan; mi piaceva perché ancora conservava, pur letteralmente un buco, su ambo i lati due lastre di marmo che sembravano vecchie “quanne o munne”.
Si, ero uno scugnizzo con la faccia d’angelo; così diceva mammà.