di Maria Rusolo
“Quando cardinali e vescovi avranno sperimentato la loro prima gravidanza, le loro prime doglie, e avranno cresciuto un paio di bambini col salario minimo, allora sarò lieto di ascoltare cosa avranno da dire sull’aborto.”
Dover sentire ancora parlare del corpo delle donne mi crea uno stato di profondo disagio. Sono cresciuta con i racconti di mia madre su cosa fosse importante per la costruzione della indipendenza e del ruolo delle donne in una società libera da condizionamenti, che non ci ponesse nella posizione di subire le scelte che altri assumessero per noi, in qualunque misura ed in qualsiasi circostanza.
Si cresceva così negli ottanta? Non credo, almeno non in tutte le famiglie, soprattutto nel Sud d’Italia, ed io per questo sono grata, oltre ogni misura e limite. Anzi oggi quando discutiamo, lei scopre di trovarsi al cospetto di una donna più forte di quello che lei sia stata, e mi pone domande e timori, in relazione ad un mondo che avrebbe voluto più equo e più giusto e che invece per noi non è quello per cui ha lottato, e desiderava. A volte arriva al punto di dirmi, che forse erano molto più tutelate le figlie della sua di generazione che noi. Che cosa assurda, che cosa oltre ogni più possibile immaginazione.
Le battaglie condotte per ottenere il riconoscimento del diritto alla interruzione volontaria della gravidanza sono state lunghe e difficili, e non sono state solo appannaggio del mondo femminile, anche gli uomini capivano benissimo che cosa significasse e, che oltre un certo limite non potevano spingersi. Lo slogan ” l’utero è mio e lo comando io” aveva un effetto dirompente, forte come un pugno in faccia, ma aveva una matrice culturale precisa, sensata e bisognosa di riconoscimento.
Erano gli anni Settanta e nonostante le resistenze di un certo mondo, nessuno osava discutere sulla validità di quella legge, che finalmente poneva le scelte delle donne al centro della discussione, come qualcosa di invalicabile, di intoccabile. Diventava prioritario anche il diritto alla salute e la necessità di interrompere il fenomeno degli aborti clandestini, le donne raccontavano un mondo interiore, raccontavano con franchezza e senza tabù la volontà di uscire dalla realtà e dal contesto di sole madri e donne adatte al focolare domestico. La famiglia diventava una questione non solo più femminile, la crescita e lo sviluppo della prole non solo più un esclusiva nostra. Una conquista di libertà assoluta, con tutto quello che ogni passo in avanti conduce con se. Si doveva solo migliorare, da quel punto in poi, creare strutture attente ai bisogni, offrire possibilità di scelta alternativa, ove ci fosse questa volontà, ed accoglienza ed appoggio in ogni caso, anche dinanzi alla titubanza.
Ma il pavimento di cristallo si è sgretolato sotto i piedi ed oggi non solo alle donne è quasi impedito ad accedere ad un diritto, a causa dei medici obiettori, ma si continua a discutere su ciò che doveva essere ormai parte integrante di un patrimonio inattaccabile. Il corpo delle donne diventa, ancora una volta lo strumento per battaglie ideologiche, chi entra in un ospedale per sottoporsi ad una interruzione di gravidanza volontaria, viene trattato come un numero, con distacco e senza nessuna delicatezza umana. Ti capita di vedere nelle emittenti pubbliche tavole rotonde nelle quali, presenti solo uomini, si discute del futuro delle donne, ti capita di vedere in un programma in prima serata un conduttore, che dichiara ” noi siamo contrari all’aborto in ogni caso”! Noi chi? E cosa significa ” in ogni caso”? Chi si può permettere di decidere cosa sia giusto o sbagliato per me? Cosa consente questa superiorità umana e giuridica, per cui io divento ostaggio del Tribunale delle masse?
Le donne devono alzare la testa, devono superare lo stigma e la vergogna, la devono smettere di sentirsi sbagliate, se non vogliono diventare madri, se vogliono, ma non possono, se si sentono frustrate nel crescere da sole i figli e se non vogliono rinunciare alla carriera per la famiglia. L’ambizione non è una colpa, voler essere quello che si è sognato da bambine non è una colpa, preferire i fucili alle barbie non è un colpa, non è un colpa voler vivere secondo la propria legge morale. Io avevo poco più di trent’anni quando ho deciso di abortire, ricordo l’atteggiamento del medico, di aver scelto l’anestesia locale per andare via di lì nel più breve tempo possibile, ricordo che in questa enorme stanza in attesa eravamo in tante, ricordo il freddo, l’arredamento scarno e le finestre sporche, ricordo, che c’erano donne giovani e madri, e ricordo di non aver mai pensato che fosse una scelta leggera, ma neanche per un istante mi sono sentita sbagliata, nonostante chi mi circondava, mi ci volesse far sentire.
Uscita dopo due ore di attesa ricordo di aver vomitato, come se dovessi liberarmi dello squallore . Non ho mai fatto mistero di questa circostanza, non ho mai avuto pentimenti, perché per me era giusto così. Ho scelto da sola senza chiedere consigli a nessuno e mia madre era con me. Rispetto tutte le storie quelle come la mia e quelle diverse, ed invito le donne in ogni caso a non sentirsi mai sbagliate, quello è il modo in cui la società ci rispinge ai margini della vita, e non possiamo permetterglielo.
“Se gli uomini potessero restare incinti, l’aborto diventerebbe un sacramento.”