di Elio Goka
A tutti quelli che aspettano di essere liberati
La vicenda di Silvia Romano non poteva che essere accolta con la malizia del sospetto. Viviamo una civiltà che si esprime per avversativi. “Non sono razzista, ma”, “Capisco, però”, “Non voglio giudicare, ma”.
Non potrebbe essere altrimenti per una società dell’imputazione, che regola il suo sguardo sulle cose secondo le misure della propria vanità. Soprattutto, per frustrazione. Il fondo vuoto e profondo delle proprie incapacità di affermazione si rivale sugli altri. Una forma parassitaria dell’esistenza. Il vivere addosso a chi è ragione d’avversione in luogo di quello che è maledetto pure se può essere utile.
E qui come e in che termini si sia sviluppata l’esperienza di questa ragazza c’entrano ben poco. È l’estetica della reazione che definisce una panoramica umana desolante e avvilente. Quel “Quanto ci è costato?” è la lapide sopra noi stessi. E menomale che stiamo ancora contando le vittime della pandemia.
Silvia Romano sarebbe stata più credibile se non fosse sopravvissuta o se fosse scomparsa senza che di lei si fosse saputo più nulla. Crediamo solo ai morti e alle sparizioni. Guardare in faccia l’uomo ci terrorizza. In Italia la credibilità è necrologica. Se una persona muore per quello per cui ha combattuto a lungo, allora è credibile.
Si sopravvive più ai nemici che a quest’orda di spettatori in perpetua malafede. Quasi sempre, visto che anche per alcuni sacrificati nemmeno questa regola è valsa a lasciarli in pace. Un processo del riconoscimento che impone comunque l’assenza. Ti riconosco purché tu non ci sia più. Le evoluzioni comportamentali dell’individuo lo hanno condotto a una raffinazione della territorialità tribale. Nulla di più. L’ego altrui è un ingombro.
Anche se sano e legittimato a mostrarsi per i suoi meriti e i suoi valori. Soprattutto se tale. Paradossalmente, si accetta più facilmente una personalità in continua e ingannevole sponsorizzazione di sé (basta vedere la credibilità di cui godono certi politici) che una realmente in grado di dare seguito ai propositi e ai significati che cerca di portare avanti.
Se Silvia Romano avesse patito il supplizio, se ne avesse mostrato i segni, allora, forse, la nostra patologica pietà si sarebbe mossa a compassione senza quell’acredine da crociata che sbandiera un Cristianesimo che non è Cristianesimo e addita un Islam che non è Islam. Tutto declinato dal gioco a presumere dio con un intendimento suprematista della religione. ‘La mia religione è l’unica possibile’.
Questo grande diffido ergo sum ha tracciato i confini di una civiltà serrata nella sua psicosi dell’assedio. Chiusa in un interno microscopico e soffocante, è furiosa con tutto quello che la metta in discussione. Chi si azzarda a uscirne per mostrare l’altrove, anche solo per il diritto a vivere la beatitudine dell’esperienza e della scoperta, diventa la traversa sghemba dentro il binario civile. Ed è proprio lo smarrimento di quella beatitudine che avvelena più del buio che separa i luoghi dai luoghi, che divide l’umanità in giudicati e giudicanti e che sfodera la pietas come un’accetta. Non sappiamo goderci nulla che non sia l’artefatto di noi stessi.
Dentro di noi abbiamo disegnato delle mappe dove abbondano gli Hic sunt leones. Quelle belve che non sono pericoli estranei e sconosciuti, ma gli spettri di noi stessi, da evitare a tutti i costi, poiché a incontrarli si rischierebbe di riconoscersi per quello che realmente si è.