di Anna Iaccarino
Quanto conta l’immagine oggi? Tanto, tantissimo. In realtà ha sempre contato, ma oggi ha un peso e una valenza fortissima, quasi vitale, al punto da sostituire “chi siamo”.
A meno che non si sceglie la minoranza del fuori catalogo e l’essenza di sé, non senza dazio di ritorno.
L’esteriorità è la nostra prima raffigurazione di presentazione, quella che arriva subito di ognuno di noi. Il nostro primo proporci al mondo, oggi più che mai indotto da linee di sistema e modelli omologanti, seppur diversificati da presunte soggettività, anch’esse, quasi sempre, di fatto allineate.
Una vera e propria costruzione di volti, corpi, linguaggi, tendenze, tutto proiettato sul traguardo vincente che arriva (ma…non sempre resta) sul sogno che brilla (ma…col vuoto del dopo).
Abiti bellissimi su anime spogliate, perfezione assoluta su rocce d’argilla, occhi cangianti su sguardi in cerca di impronte.
Una sorta di doppia facciata, entrambe in qualche modo sempre noi, ma una per diventare chi/qualcosa, l’altra per essere e basta.
Un pò come i dischi di una volta, il lato A con la canzone che spacca da lanciare con ogni trend di mercato, il lato B con un brano semplicemente da ascoltare e che invece ti ritrovi ad amare. Almeno a me, è spesso successo così.
La musica inattesa, quella scoperta per caso, mi ha aiutato a riavermi ogni qual volta mi sono sentita sguarnita in cerca di approdi senza meta, che mi portassero a casa.
Tonando a questo mio scritto, che vuole essere un’esplicitazione di pensiero, non un approfondimento tematico, mi chiedo se l’operazione “maschera, apparenza” possa essere tutta da condannare o rappresentare invece anche un connubio di varco identitario, proiettato, pur con limiti, a una nuova immagine sociale della realtà di oggi.
I cambiamenti possono piacere o meno, ma vanno letti, ascoltati, incontrati, provando a farne parte senza recinti di appartenenza.
“Il potere ha da sempre grandi interessi a coltivare apparenze illusorie e il mito del prestigio”, ma il bisogno dell’identificazione sociale non è sempre figlia di tutto questo e soprattutto ha bisogno di trovare una sua strada nei mutamenti dei diversificati percorsi del tempo.
A volte la costruzione di immagini, figure, apparenze, può essere anche bisogno terapeutico, ovvero la condizione fisiologica per aprirsi al mondo, il primo biglietto da visita per farsi conoscere, un approccio condizionato ma dettato dalla necessità di manifestarsi. Il problema sorge dopo. Non lasciarsi ingabbiare dall’ingranaggio e “riconoscersi” nella verità di sé.
Questo è il tempo storico del “chi non appare, non comunica, e quindi non esiste”, un vortice necessario e pericoloso allo stesso tempo. Come ogni misura del tempo, se da un lato il raccontarsi prevede, anche qualche estensione fuori, ritornare alla coscienza del sé, a quello che effettivamente si è, diventa un obbligo morale. Il concreto rischio, senza una forma di equilibrio, è quello di rimanere schiacciati o, al contrario, di collocarsi senza essere riconosciuti.
Allora, esserci sì, ma con la misura necessaria e comunque dentro una cornice dove è possibile usare quella flessibilità aggregante, gratificante ed includente.
Darsi, quindi si, a quell’apparenza che fa sognare traguardi e benessere di mete e conquiste, ma senza tralasciare la ricchezza dello svelamento e della crescita interiore.
Quella medicina dell’anima che veste i passi del nostro cammino in ogni capo di arredo ed evoluzione, e che rimane il senso vero della vita.
Magari, mutando il finale del titolo dell’omonimo film, con “Sotto il vestito… Noi”.