“Stefano è mio figlio.
Stefano era mio figlio. Un figlio difficile, un figlio debole. Un figlio che mi ha fatto tanto piangere e arrabbiare. Ma
Stefano era mio figlio.
Stefano si metteva nei guai, conosceva la droga. Non era un santo, mio figlio Stefano. Ma quando lo Stato se l’è preso, Stefano era vivo. Ero quasi sollevata che lo avessero arrestato, forse starà un po’ fuori dai guai, forse metterà la testa a posto.
Quante volte sono morta di paura per mio figlio. E di rabbia e di vergogna. Ma quante volte sono rinata di speranza. Forse questa è la volta buona!
Quando il mio Paese si è preso Stefano, lui era vivo.
Mi ha restituito un figlio morto, il mio Paese.
Lo hanno tenuto in carcere e processato. Io volevo vederlo, volevo chiedergli come stava. Volevo portargli la biancheria pulita. Volevo toccargli le mani. Volevo dirgli che io ero qui, per lui. Che sua madre lo avrebbe aiutato. Che forse potevamo ancora farcela a salvarci.
Ma non me lo hanno lasciato vedere, non mi davano nemmeno notizie.
Un giorno, hanno suonato alla porta. Quel giorno sono morta io. Era un ufficiale giudiziario che mi notificava l’autorizzazione all’autopsia sul corpo di mio figlio. Ma mio figlio era vivo. Io ve l’ho consegnato vivo. Io non sapevo che fosse morto e voi mi notificate l’autorizzazione all’autopsia?
In che Paese ti ho fatto nascere, figlio mio?
Mi hanno restituito un figlio a pezzi, macchie di sangue e ferite. Ma io ero morta. Hanno infierito su di lui e su di me. Vilipendio di cadavere, il cadavere di una madre. Hanno infierito i poliziotti e i politici. Hanno infierito gli applausi, i gestacci da osteria e le assoluzioni.
Stefano era mio figlio. E oggi siamo morti di nuovo.”
Non è la madre di Stefano che scrive, è un’altra madre. Che prova a mettersi in quei panni dolorosi. Una madre che ha paura per suo figlio. Una madre che ha troppa rabbia dentro.
E non si dovrebbe scrivere per rabbia, ma ormai è l’unico motore