L’anno accademico 2015-2016 ha visto un aumento delle tasse universitarie per far fronte al piano di risanamento. In questi giorni l’Università di Bari è stata protagonista di proteste da parte di studenti che si sono visti di colpo aumentare le rette d’iscrizione e dover far fronte all’ingente spesa dei libri di testo.
Parlare di diritto allo studio, quel diritto tanto osannato dagli studenti e addirittura difeso a suo modo dalla nostra Costituzione, sembra quasi incredibile quando si verificano eventi di questo genere. Vedere ragazzi che piangono perché l’economia vuole strappargli un diritto tanto semplice quanto incatenato dai giochetti dello stato, ragazzi che esprimono tutta la loro difficoltà nel sostenere tasse su tasse non è un belvedere.
Lo chiamiamo diritto allo studio ma sappiamo benissimo però che tanto diritto non è dal momento che l’Italia in questi ultimi anni è l’unico paese in Europa a non aver creato una soluzione produttiva al problema del calo drastico del livello d’istruzione.
Francia, Germania, Spagna sono solo alcuni degli stati che nell’ultimo anno hanno incrementato il loro finanziamento pubblico alle università.
Mentre in Italia il calo è stato del 22,5% solo negli ultimi otto anni, negli altri paesi è aumentato. Solo in Germania c’è stato un incremento del 23%. (fonte la stampa.it)
L’Italia per far fronte alla sua crisi ha mandato in crisi il futuro di tantissime matricole.
Gli studenti dell’Università di Bari hanno chiesto a gran voce la parola del rettore Antonio Uricchio il quale nel suo intervento ha espresso la volontà di proporre al Consiglio di Amministrazione un modo per prorogare le scadenze al 20 ottobre, 20 novembre e 20 dicembre per poter dare modo alle famiglie in difficoltà di pagare l’iscrizione all’università ai propri figli.
Agli studenti la batosta è arrivata con l’arrivo della seconda tassa da pagare – in ritardo di cinque mesi – entro il 30 settembre.
L’università non è più vista come strumento di “avanzamento sociale”.
Sono tantissimi i 19enni che terminata la scuola – soprattutto l’ambito tecnico professionale – lasciano gli studi e decidono di cercare un impiego che li inizi al mondo del lavoro.
L’Italia ha fatto esattamente il contrario di ciò che bisognava fare per risollevare questo paese da percentuali quasi inaccettabili di livelli di istruzione.
Possiamo piangere, chiedere la parola ai rettori, far sentire la nostra voce a gran grido e sbattere in faccia l’art. 34 della Costituzione ai potenti del sistema. Fin quando ci sono in ballo interessi più potenti l’istruzione del popolo è un fattore che va decisamente in secondo piano, soprattutto se può essere funzionale a molte situazioni.
Una nazione che vede piangere i propri figli per ottenere un misero diritto a formare il proprio futuro è una nazione che ha perso.