di Elio Goka
La parola fine secondo Eduardo.
Ciò che i miei occhi stupiti videro è tutto ciò che sono riuscito a sapere di Bartleby”. Nessuno sa cosa si sono portati dietro gli attori che predicavano il teatro incomprensibile, così come mai nessuno ha ritrovato il loro armamentario per potervi rovistare nella speranza di scovarvi un genere di rivelazione. Per chi ha avuto almeno una volta l’occasione di guardare da vicino il colore bruno e fermo, bucato da una luce fioca e sottile in mezzo al buio, che nel silenzio si lascia sfuggire quel cigolio brevissimo che pare muovere le tavole di legno sopra il palcoscenico, come l’onda leggera e piatta attraversa la superficie del mare nelle prime ore del mattino delle giornate estive, il teatro resta la riproduzione delle più remote cavità emotive. Comunque si chiuda il palcoscenico l’ultima scena è sempre la stessa. Che il palco sia stato attraversato dal silenzio o da una tempesta, che vi abbia albergato una folla o il deserto, tutto ritorna com’è.
Il teatro di Eduardo De Filippo è dentro il cassetto di un mobiletto nascosto nella casa più antica di Napoli, separato dai travisamenti ai quali è stato spesso sottoposto, in qualche occasione pure a rischio dell’oltraggio, maldestramente “impulcinellito”, a sua dispetto, che a misura della sua anima fiera e rigorosa, proprio indossando la maschera di Pulcinella aveva fornito al mondo l’ottava più bassa dell’ennesimo grado di discrezione di una voce che non ne può più di essere avvicinata ogni giorno a mo’ di avamposto ambulante per la pubblica spensieratezza. Contro ogni tradizione dell’esasperazione, il palcoscenico di Eduardo ha saputo riunire in sé il lume perpetuo del teatro universale, condotto dentro il cuore della parola napoletana. Il teatro delle gazzose, dei quarti di pizza e delle castagne d’inverno, che spesso erano il pasto degli attori tra un atto e l’altro, di quando a Napoli c’erano impresari che per cacciare il pubblico usavano le manichette dei pompieri.
Eduardo ha insegnato a vivere, e non si fraintenda la sua didattica per un formulario dottrinale o per qualche codice dell’educazione morale. Eduardo ha insegnato a vivere perché ha raccontato la vita senza che nient’altro potesse sottrarla alla necessità di imparare. Il mistero del suo teatro si è realizzato attraverso l’assenza della parola fine. Con Eduardo il palcoscenico non si chiude, ma senza alcuna necessità d’indagine e in completa assenza di sospetti d’incompiutezza. Il teatro è come la vita, e come tale nessuno ha facoltà di domandargli comprensione. Eduardo, forse, non ha abitato il palcoscenico, ma lo ha cambiato. Ha saputo inoltrarvi nuovi sussurri, educandolo a un nuovo campionario di suoni di fondo, nella più dolorosa esplorazione di un transito sopra inconfessabili calvari interiori. Goethe ha scritto che gli attori conquistano il nostro cuore senza dare il loro. Alcuni, forse, non possono darlo perché costretto a battere altrove.
Angelo Maria Ripellino della sua “Praga magica” scrive che “ancor oggi il fuoco effigiato dall’Arcimboldo con svolazzanti cappelli di fiamme si precipita giù dal Castello, e il ghetto s’incendia”. Così ogni notte Eduardo torna alla sua scrivania, controlla che l’ora dell’inizio sia ancora lontana dalle prime luci del mattino, per apprestarsi a scrivere un’altra commedia. Così ogni sera Eduardo riunisce la sua compagnia e prova i suoi attori fino allo stremo. Il pubblico non si è rassegnato, ancora lo aspetta. Grazie a quell’azione misteriosa che sorvola le distanze ignote dell’assenza, bisbigliando la preghiera che qualcosa oltre questa vita riproduca l’istantanea più cara che la nostra memoria è riuscita a conservare, lottando contro improvvisi tentativi di rimozione, resistendo proprio come il silenzio del teatro resiste ai rumori estranei, laddove con candore qualcosa di tanto in tanto sfugge, raccolto da Eduardo, ogni notte, a luci spente, attraversando il palcoscenico, ci restituisce la parola fine sotto forma di creatura appena nata.