Sa, Presidente De Luca, una volta io e Lei ci siamo incontrati.
Quando Lei decise di candidarsi come Presidente della mia Regione, ne fui felice. Pensavo davvero che “Lo sceriffo” potesse cambiare qualcosa.
Poi, ho iniziato a scrivere.
Così, per caso.
Scesi una volta, in strada, a manifestare in un corteo silenzioso, e lì decisi che il silenzio non poteva, e non doveva, essere la soluzione.
Ho raccontato tante storie. Moltissime di morte, qualcuna di speranza. Queste ultime sono quelle che preferisco. Perché sa, Presidente De Luca, è proprio difficile andare avanti se non ci si aggrappa almeno alla speranza. Anni di storie raccontate. Anni di storie che ci siamo sentiti raccontare.
Io sono l’ultima ruota del carro, Presidente.
Non sono nemmeno una “giornalista”, di quelle con il tesserino. Raccontavo solo per la necessità di non stare zitta davanti a quello che vedevo.
A un certo punto, raccontare non è bastato più, avevo la sensazione che non servisse a niente. Sembrava che ci dicessimo sempre le stesse cose. Ci siamo fatti, nel tempo, una cultura di monnezza, sversamenti, acque inquinate. Di imprenditori collusi con la camorra, di pomodorini del piennolo coltivati sullo schifo.
Delle vostre ecoballe sempre meno eco, e sempre più balle.
Il “giornalismo” fatto così non paga, però, caro Presidente De Luca.
Allora ho trovato un lavoro.
E, ironia della sorte, sono andata a lavorare in uno studio medico. Sono 5 mesi. Pochi, dirà Lei. Verissimo. Ma sufficienti per aver conosciuto di persona Gabriella, che aveva dei bellissimi capelli castani, e adesso ha un caschetto biondo. E sintetico.
Ha la mia età, e due figli più piccoli dei miei. E un cancro al seno.
Come Anna Maria, e Raffaella. E Agnese, e Angelina. E Elisabetta, che non ho mai visto di persona, perchè è già in recidiva, e allo studio viene il marito. Ah, conosco anche il marito di Raffaella. Ha un cancro al rene. E potrei continuare, sa, Presidente? solo che l’età potrebbe salire un po’, e quelli più anziani in qualche modo devono pur morire, dirà Lei.
Qui però sembra che l’alternativa non ci sia, Presidente.
5 mesi, in uno studio con poco più di 1500 assistiti. Direi che la media è alta. Ma Lei dice che è in linea con i dati nazionali.
E allora cazzo (mi scusi, Presidente, ma so che Lei non si formalizza troppo per una parolaccia), in questa nazione c’è decisamente qualcosa che non va.
Perché qua due sono le alternative: o i dati di questo fetente di registro non sono veritieri (e allora vorrei sapere da Lei, Presidente De Luca, chi ce li mette, come ce li mette, da dove li prende, e perché non corrispondono a quello che NOI vediamo, ogni giorno) o l’Italia è un Paese TUTTO malato. E pure in questo caso, credo si dovrebbe capire perché e come risolvere il problema.
Riducendo i nostri ammalati, e i nostri morti a dei “dati in linea con le statistiche nazionali” Lei, caro Presidente De Luca, sta sminuendo il lavoro dei suoi stessi uomini. Di quelli in divisa, che da anni scavano, indagano, muoiono pure, perché si ammalano a loro volta delle stesse malattie. Sta mettendo in dubbio tutto l’inchiostro versato dai giornalisti, non i pennivendoli (che se li chiamo giornalai si offendono i giornalai), ma da quelli seri, che hanno rimediato minacce e ritorsioni dalle loro inchieste. Sta declassando l’intelligenza di chi, non per sentito dire, ma per averle vissute sulla propria pelle, certe tragedie, ha dato in pasto al pubblico il proprio dolore. Un dolore di quelli che non si augurano a nessuno, un dolore che – se fosse in linea con i dati nazionali – resterebbe chiuso nelle quattro mura di una casa, e non diventerebbe invece vessillo da sventolare affinchè nemmeno un’altra madre abbia a provarlo.
Sa, Presidente De Luca, se l’intento era quello di farmi capire che un topolino non può combattere contro un elefante, lo scopo lo ha quasi raggiunto.
Ma se l’avesse anche solo sfiorata, l’idea di convincermi che forse mi sono sbagliata, e che eravamo effettivamente degli allarmisti, no, ha sbagliato di grosso.
Piuttosto il contrario.
Ostinarsi a ridimensionare quello che è sotto gli occhi di tutti, quotidianamente, è solo la conferma che è vero. L’Italia è un Paese malato.
Ma di quella malattia incurabile che qualcuno definisce potere, e che io chiamo vergogna.