di Danilo Cappella
Se ripenso a quel momento, piango ancora.
Era iniziato con attorno un’aura negativa pazzesca, il pomeriggio di domenica.
Con l’obbligo di vincere, altrimenti il campionato sarebbe finito, come sempre, con un mese e mezzo di anticipo.
Qualche buona occasione nel primo tempo, una letteralmente divorata da Callejon, ma un attacco sempre poco lucido, poco fluido, come se ci fosse una terribile paura di non farcela a bloccare gli azzurri.
E così il tifo.
Presente e possente, ma non determinato.
Non con gli occhi della tigre.
“C’è ancora un’eternità da giocare, vedrete che la buttiamo dentro e andrà tutto a posto”.
Il vociare in gradinata tra primo e secondo tempo è ottimista ma balbettante.
Basta poco a farci brillare gli occhi, all’inizio della ripresa; cinque minuti, rigore su Mertens.
Personalmente, non li guardo mai i rigori, mi giro di spalle e guardo gli occhi delle persone in curva.
Sento il fischio, è il momento in cui le papille di tutti si dilatano prima di spegnersi nello sconforto più totale.
Il tempo c’è, ma ora la paura è vera.
E i calciatori la avvertono.
Cominciano a perdere concentrazione, a perdere fiducia, a non crederci più.
E Koulibaly regala al Chievo la possibilità di rovinarci la domenica, la settimana, la stagione.
Ad un quarto d’ora dalla fine, è zero a uno.
Cala il silenzio.
Le facce attonite delle persone attorno a me sono quelle che non avrei mai voluto vedere.
Il sogno si è frantumato nel primo pomeriggio primaverile e soleggiato.
“Può davvero finire così questa domenica?”
Mentre il cervello vaga e immagina e sogna cose che accadranno a breve, ma non lo sa ancora, la resa è quasi totale.
Insigne manda a quel paese un gruppo di sedicenti tifosi che lo fischiano.
Il dolore e la rabbia sono diventati rottura.
Ma da quel punto così basso, si può solo svoltare.
Lorenzo, col pennello che si ritrova al posto del piede, regala a Milik la parabola perfetta, e il polacco, l’unico ad apparire completamente in forma e pieno di rabbia agonistica, non si fa pregare.
Palla all’angolino, uno a uno.
Guardo il cronometro, manca un minuto.
Il Chievo, come più o meno mezza serie A che viene a fare ostruzionismo a Napoli anziché giocare a calcio, ha perso parecchio tempo, quindi forse abbiamo ancora una speranza.
Si alza la lavagna luminosa del quarto uomo, recita tre minuti.
Forse è uno scherzo, ma ancora una volta il sistema ci dice che non ha piacere a vederci vincere.
Ma a noi basta sognare, non lo capirete mai.
E centottanta secondi possono essere abbastanza.
Zielinski prende palla, cross, Milik la sfiora, e Sorrentino, da buon napoletano, fa la parata della sua vita scaraventandosi tra palo e rete.
L’urlo rimane strozzato in gola.
C’è un briciolo di speranza ancora, ma quella palla non entrerà se non ci pensiamo noi a farlo.
Come se fosse l’ultima carta da giocarsi, tutto lo stadio inizia a cantare, tutto lo stadio.
Tutto lo stadio.
Calcio d’angolo per noi.
Lo stadio trema su quel coro, i giocatori del Napoli lo avvertono, quelli del Chievo pure.
Mi guardo attorno, in quei dieci secondi che sembrano un’eternità, e mi domando come possa non entrare dentro il pallone.
Stiamo tutti qui, a cantare, a crederci; come può finire diversamente da come stiamo immaginando?
Palla dentro, Diawara.
Alcuni attimi durano anni.
Gol.
Mi guardo attorno mentre urlo, cerco lo sguardo di mio fratello e non lo trovo, ne trovo altri.
È un momento di esaltazione assoluta, in cui confluiscono rabbia, frustrazione, gioia e speranza.
Guardo uno dei miei compagni di gradinata, sta piangendo.
Come me.
Come tutti.
Gli indico il mio orecchio e lui fa altrettanto.
“Non ho sentito la campana”, come Mickey dice a Rocky per ricordargli che è finita solo quando è finita, e chi si arrende prima ha già perso.
Lo stadio è un delirio totale, stanno piangendo tutti.
Tranne chi è andato via prima, magari la scaramanzia li inviterà a rimanere a casa la settimana prossima.
Quell’emozione non è facilmente spiegabile, ma, ad esempio, le urla di Anna Trieste in diretta a Quelli che il Calcio sono una delle immagini migliori.
Sono urla di liberazione e di gioia, e francamente ‘sticazzi di essere in diretta nazionale; quella gioia, quelle urla, quelle lacrime, che vedete e non capite, è perché non potete capirle.
La partita finisce, e c’è ancora il sole.
C’è il sole, è domenica, il Napoli ha vinto al cardiopalma e ci regala un altro po’ di tempo per sognare.
Vorremmo che la domenica non finisse mai.
E, credetemi, il tempo per molti si è fermato quando Diawara l’ha messo all’angolino, e da lì non si muove più.
Era iniziato con attorno un’aura negativa pazzesca, il pomeriggio di domenica.
Con l’obbligo di vincere, altrimenti il campionato sarebbe finito, come sempre, con un mese e mezzo di anticipo.
Qualche buona occasione nel primo tempo, una letteralmente divorata da Callejon, ma un attacco sempre poco lucido, poco fluido, come se ci fosse una terribile paura di non farcela a bloccare gli azzurri.
E così il tifo.
Presente e possente, ma non determinato.
Non con gli occhi della tigre.
“C’è ancora un’eternità da giocare, vedrete che la buttiamo dentro e andrà tutto a posto”.
Il vociare in gradinata tra primo e secondo tempo è ottimista ma balbettante.
Basta poco a farci brillare gli occhi, all’inizio della ripresa; cinque minuti, rigore su Mertens.
Personalmente, non li guardo mai i rigori, mi giro di spalle e guardo gli occhi delle persone in curva.
Sento il fischio, è il momento in cui le papille di tutti si dilatano prima di spegnersi nello sconforto più totale.
Il tempo c’è, ma ora la paura è vera.
E i calciatori la avvertono.
Cominciano a perdere concentrazione, a perdere fiducia, a non crederci più.
E Koulibaly regala al Chievo la possibilità di rovinarci la domenica, la settimana, la stagione.
Ad un quarto d’ora dalla fine, è zero a uno.
Cala il silenzio.
Le facce attonite delle persone attorno a me sono quelle che non avrei mai voluto vedere.
Il sogno si è frantumato nel primo pomeriggio primaverile e soleggiato.
“Può davvero finire così questa domenica?”
Mentre il cervello vaga e immagina e sogna cose che accadranno a breve, ma non lo sa ancora, la resa è quasi totale.
Insigne manda a quel paese un gruppo di sedicenti tifosi che lo fischiano.
Il dolore e la rabbia sono diventati rottura.
Ma da quel punto così basso, si può solo svoltare.
Lorenzo, col pennello che si ritrova al posto del piede, regala a Milik la parabola perfetta, e il polacco, l’unico ad apparire completamente in forma e pieno di rabbia agonistica, non si fa pregare.
Palla all’angolino, uno a uno.
Guardo il cronometro, manca un minuto.
Il Chievo, come più o meno mezza serie A che viene a fare ostruzionismo a Napoli anziché giocare a calcio, ha perso parecchio tempo, quindi forse abbiamo ancora una speranza.
Si alza la lavagna luminosa del quarto uomo, recita tre minuti.
Forse è uno scherzo, ma ancora una volta il sistema ci dice che non ha piacere a vederci vincere.
Ma a noi basta sognare, non lo capirete mai.
E centottanta secondi possono essere abbastanza.
Zielinski prende palla, cross, Milik la sfiora, e Sorrentino, da buon napoletano, fa la parata della sua vita scaraventandosi tra palo e rete.
L’urlo rimane strozzato in gola.
C’è un briciolo di speranza ancora, ma quella palla non entrerà se non ci pensiamo noi a farlo.
Come se fosse l’ultima carta da giocarsi, tutto lo stadio inizia a cantare, tutto lo stadio.
Tutto lo stadio.
Calcio d’angolo per noi.
Lo stadio trema su quel coro, i giocatori del Napoli lo avvertono, quelli del Chievo pure.
Mi guardo attorno, in quei dieci secondi che sembrano un’eternità, e mi domando come possa non entrare dentro il pallone.
Stiamo tutti qui, a cantare, a crederci; come può finire diversamente da come stiamo immaginando?
Palla dentro, Diawara.
Alcuni attimi durano anni.
Gol.
Mi guardo attorno mentre urlo, cerco lo sguardo di mio fratello e non lo trovo, ne trovo altri.
È un momento di esaltazione assoluta, in cui confluiscono rabbia, frustrazione, gioia e speranza.
Guardo uno dei miei compagni di gradinata, sta piangendo.
Come me.
Come tutti.
Gli indico il mio orecchio e lui fa altrettanto.
“Non ho sentito la campana”, come Mickey dice a Rocky per ricordargli che è finita solo quando è finita, e chi si arrende prima ha già perso.
Lo stadio è un delirio totale, stanno piangendo tutti.
Tranne chi è andato via prima, magari la scaramanzia li inviterà a rimanere a casa la settimana prossima.
Quell’emozione non è facilmente spiegabile, ma, ad esempio, le urla di Anna Trieste in diretta a Quelli che il Calcio sono una delle immagini migliori.
Sono urla di liberazione e di gioia, e francamente ‘sticazzi di essere in diretta nazionale; quella gioia, quelle urla, quelle lacrime, che vedete e non capite, è perché non potete capirle.
La partita finisce, e c’è ancora il sole.
C’è il sole, è domenica, il Napoli ha vinto al cardiopalma e ci regala un altro po’ di tempo per sognare.
Vorremmo che la domenica non finisse mai.
E, credetemi, il tempo per molti si è fermato quando Diawara l’ha messo all’angolino, e da lì non si muove più.