Si avverte forte nella nostra società un bisogno di pace, che parte dalle cose più semplici per arrivare alle situazioni più complesse.
In primis, pace nelle famiglie, visto che il nucleo fondante di qualsiasi consesso sociale è messo in crisi dalle dinamiche economiche, che tendono a far implodere contesti familiari, che sono stati pesantemente colpiti dalla tormenta finanziaria, che si è scatenata dopo il 2008.
Altresì, pace nei luoghi di lavoro, che sono sempre più caratterizzati da contenziosi, che si accendono numerosi, visto che lo spazio di crescita per tutti i lavoratori è sempre minore, cosicché ciascuno di loro diviene lupo per l’altro collega.
Pace nelle nostre città e nei nostri rioni, dal momento che le strade sono sempre più invase, invece, da forme di violenza, che vanno dalla delinquenza comune a quella, nei casi più gravi, di matrice terroristica.
Pace nelle nostre comunità nazionali, che stanno vivendo, tutte, il periodo peggiore della storia recente, poiché il crollo delle certezze del XX secolo ha fatto sì che venisse a crearsi un nuovo equilibrio internazionale, che però è malsicuro e, soprattutto, non è stato foriero né di sviluppo, né di crescita, almeno fino ad ora.
Pace fra gli uomini, infine, perché questa è la precondizione essenziale, affinché un consesso civile, più ordinato e più articolato al suo interno, possa essere promotore del progresso di ciascuno di noi, tanto nella dimensione privata, quanto in quella pubblica.
Purtroppo, è venuto a mancare, nel corso dell’ultimo decennio, quel nobilissimo sentimento dell’appartenenza, che dovrebbe guidare qualsiasi comunità, dalla più piccola alla più grande, e che rappresenta il punto di partenza per la costruzione di una prospettiva irenica, che non sia, solamente, il frutto di un conato morale tanto edificante, quanto velleitario.
Le dinamiche centrifughe hanno preso il sopravvento, per cui oggi, molto più di ieri, incontra facile successo chi distrugge e non chi tende a costruire un orizzonte di pace e di prosperità per sé e, prima ancora, per gli altri.
Il venire meno delle grandi ideologie del Novecento ha contribuito, in modo determinante, a creare un tale sentimento di disorientamento, per cui il singolo si affida ad un bisogno generico di trascendenza o, peggio ancora, si rifugia in una nociva condizione solipsistica, per cui rifiuta sistematicamente l’incontro con l’altro, tanto più quando questo è portatore di una diversità religiosa o culturale o razziale o ideale.
Il sentimento di identità, per tal via, si sfuma e si trasforma, addirittura, nel suo opposto, in un malcelato senso della fierezza, che induce gli uomini a scontrarsi e non a valorizzare i punti di forza del vivere comune.
È tragica, purtroppo, una siffatta situazione, ma è drammaticamente autentica, visto che il contenzioso, a qualsiasi livello della vita associata, non solo si amplifica, ma diviene il tratto dominante di una società, che tarda nel riconoscersi in un modello virtuoso di aggregato di diversità.
Come si evolverà una tale condizione?
Forse, l’homo hominis lupus diventerà la verità fondante dell’umanità dei prossimi decenni, per cui questa imploderà molto più rapidamente di quanto non sia avvenuto nel secolo scorso, quando pure sussisteva il pericolo della bomba atomica e dei totalitarismi di Destra, come di Sinistra?
O, forse, un’autorità spirituale, universalmente riconosciuta, sarà in grado di far ragionare gli uomini e gli Stati, per cui si tornerà a poter progettare un’ipotesi di futuro, che non sia la mera riproduzione del gramo presente?