di Rosario Pesce
In questo momento, l’immagine di un partito accartocciato su se stesso è, forse, quella che rende meglio la condizione del PD, lacerato al suo interno fra due opposte visioni della realtà: da una parte, chi (i renziani) intende rifugiarsi sull’Aventino per difendere la leadership del proprio Capo e chi, invece, sa bene che non può esistere un partito al di fuori dei giochi parlamentari, come è successo per l’elezione dei Presidenti delle Camere, ed intende rilanciare il ruolo del PD, anche, attraverso l’interlocuzione – con pari dignità – con il M5S.
Su questa seconda posizione, che ci sembra invero la più intelligente e proficua sia per lo stesso PD, che per la nazione intera, non solo converge la vecchia minoranza di Orlando ed Emiliano, ma anche Franceschini, che dopo lo shock elettorale pare abbia preso le distanze da Renzi, segnando un’ipotesi di percorso, che non solo rimetterebbe in gioco il PD, ma segnerebbe il tramonto definitivo della posizione di dominio avuta da Renzi nel corso degli ultimi quattro anni, conclusisi con la sconfitta cocente di marzo.
Il PD, nonostante la débâcle elettorale, è pur sempre il secondo partito italiano ed è la formazione al cui interno militano, forse, le intelligenze più vivide del panorama politico odierno, per cui immaginare che Renzi, inducendo i gruppi parlamentari al mero Aventino, stia rischiando di rottamare la storia decennale di un gruppo di uomini e le speranze di milioni di Italiani costituisce, davvero, un’ipotesi avvilente.
È evidente che il PD non deve, ulteriormente, accartocciarsi su se stesso e deve uscire dall’angolo in cui è stato relegato, quando sono stati eletti i vertici di Palazzo Madama e di Montecitorio.
Ma, per fare questo, serve un’imponente iniziativa al suo interno, che in particolare metta in discussione il potere di condizionamento che Renzi, tuttora, ha nonostante si sia dimesso dalla carica di Segretario.
Dopo una sconfitta delle proporzioni di quella dello scorso 4 marzo, una comunità politica non può non interrogarsi sulle ragioni di tale disfatta, ma in particolare deve al suo interno ricreare le condizioni per una possibile convivenza, ripartendo da leadership e da rapporti di forza diversi da quelli degli ultimi anni, a meno che non voglia condannarsi a divenire residuale ed irrilevante nella vita istituzionale della nazione.
Orlando, Emiliano, Franceschini, Martina e quanti altri vorranno aprire un dibattito serio e credibile all’interno del PD saranno capaci di portare il partito su lidi diversi da quelli che hanno determinato la sconfitta del 4 marzo?
Un partito renziano è, oggi, il tradimento del partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria.
Quando le culture cattolico-democratica, ex-comunista e socialista si sono messe insieme per dar vita al PD, lo hanno fatto per interpretare i sentimenti della maggioranza del Paese e non per rappresentare gli interessi di un ceto politico minoritario ed autoreferenziale, che non ha ancora preso atto delle ragioni di una disfatta che non ha precedenti nella storia elettorale del Paese, a partire dal 1948 in poi.
Forse, questa riflessione andava già condotta dopo la sconfitta al referendum del dicembre del 2016, ma, come recita il titolo di un’opera cinematografica molto importante, non è mai troppo tardi, in politica soprattutto, per correggere il tiro e per emendare gli errori commessi.
Forse, dopo Pasqua, potrà effettivamente esserci una resurrezione per il PD e per quanti, in questi ultimi anni, da dirigenti o da militanti o da semplici elettori hanno creduto, per davvero, al sogno del 2007?