di Rosario Pesce
La nostra è una società violenta.
La violenza si manifesta in mille modi, da quella verbale a quella fisica, ed ovviamente a pagare il fio maggiore è sempre il soggetto più debole ed indifeso, che può essere il disabile, la donna, lo straniero, il bambino, il diverso.
Cosa fare contro una simile ondata, che rischia – peraltro – di far perdere ogni speranza in un futuro migliore?
Inasprire le pene?
Rendere ancora più significativi i percorsi di prevenzione e di formazione?
Sensibilizzare le agenzie educative su un simile tema, su cui peraltro tutte già sono attive?
È evidente che il percorso, che si presenta, è dei più impervi e difficili: affermare il senso della legalità contro chi, con strumenti efferati, cerca di imporre il proprio punto di vista o la propria posizione di forza rispetto all’altro.
Si tratta di un fenomeno sociologicamente molto complesso da illustrare, visto che molteplici sono le concause.
È ovvio che, in primis, le famiglie devono iniziare un percorso di iniziazione contro la violenza, ma come è possibile realizzare ciò se, sovente, il primo luogo violento è lo stesso nucleo familiare?
Non è un caso, se le forme di violenza, che oggi maggiori preoccupazioni destano, sono quelle contro l’universo femminile e contro l’infanzia, violenze – queste – che hanno inizio nel luogo che, invece, dovrebbe essere più sacro, la famiglia.
Ed, allora, molti sono gli interrogativi intorno, anche, all’efficacia delle politiche di prevenzione, oltreché di quelle di repressione.
Forse, la crisi economica o il crollo dei grandi ideali dei secoli scorsi hanno creato le premesse per un disequilibrio più rilevante nella società fra i soggetti forti e la parte debole della stessa?
Certo è che, finanche in questo ambito del vivere civile, è necessaria una svolta se non si vuole correre il rischio di andare incontro alla futura creazione di un consesso sociale in cui la regola è l’eccezione e non il dato strutturale.