di Rosario Pesce
I fatti tragici di queste ultime settimane dimostrano come il processo di globalizzazione abbia dei limiti oggettivi, per cui esso risulta non governabile.
Il passaggio del coronavirus dalla Cina all’Europa rappresenta un salto di qualità nella trasmissione di quell’infezione.
Se, infatti, sospendendo i viaggi da e per la Cina si era pensato che si potesse così mettere un freno alla diffusione del morbo, invece una simile previsione è stata disattesa dai fatti: il virus è giunto comunque in Europa e, nel giro di due settimane, si saprà se si è in presenza di una vera e propria epidemia, come quella già sviluppatasi in Oriente.
Ma, è ovvio che, comunque andrà, i fatti di questi giorni segneranno in modo indelebile la storia mondiale.
Non potrà che nascere e crescere ulteriormente la diffidenza verso gli stranieri, perché ogni persona di cittadinanza non europea potrà essere individuata come un possibile untore, con tutte le conseguenze del caso.
Ed, allora, sorge spontanea una domanda: si può mettere fine alla libera circolazione delle persone, oltreché delle merci, in un mondo – come il nostro – sempre più interconnesso?
È evidente che i danni economici saranno ingentissimi e, se l’economia cinese è molto forte per cui si presume che possa reggere il colpo del coronavirus, non si può dire lo stesso di quella di molte altre aree del mondo, dove la diffusione del morbo potrebbe essere fatale – finanche – in termini di produzione della ricchezza.
Si tornerà, allora, al Medioevo quando ogni comunità era isolata da tutto il resto, perché incombeva il pericolo dei Mori?
Certo è che, in questi giorni, si giocano i destini del mondo: non solo bisognerà mettere in essere tutte le strategie possibili per limitare il contagio, ma contemporaneamente bisognerà evitare che si perda la scommessa dell’integrazione fra popoli diversi, che riporterebbe l’umanità a secoli inquietanti della sua storia recente.