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di Maria Rusolo
“Incominciai anche a capire che i dolori, le delusioni e la malinconia non sono fatti per renderci scontenti e toglierci valore e dignità, ma per maturarci.”
Oggi ho pensato di raccontare un modo di vivere le vacanze diverso da quello a cui siamo abituati. Sono mesi in cui sui social ed ovunque scorrono le immagini di spiagge assolate, di pelli abbronzate, di serate a bordo piscina, di gioia e di benessere, anche se in molti casi si tratta di una felicità apparente, ma si sa gli esseri umani a volte sono più attenti a quello che appare che a quello che in realtà ha davvero una matura e pratica esistenza.
Siamo fatti così, abbiamo bisogno di situazioni di conforto, un po’ come quando siamo tristi perché ci ha lasciato il nostro grande amore e ci ingozziamo di nutella. Insomma io vorrei andare oltre questo solito racconto delle vacanze e raccontarvi la mia di vacanza, che non ha nulla di così interessante da meritare un post o una foto su instagram, ma ha qualcosa di più umano e forse può spiegare che lì fuori esiste un mondo non tanto patinato, ma reale che è fatto anche di sofferenze e dolore, e che è bene non nascondere sotto il tappeto di casa, portandolo alla luce del giorno, perché respiri profondamente. Ebbene io non mi sono allontanata dalla mia città, ho chiuso lo Studio nel quale lavoro e che è tanto della mia vita, e sono rimasta a casa, con mia madre, che ha un problema fisico e mentale e che ormai vive con me da otto mesi, dopo essere stata dimessa da un ospedale, ma questa è un’altra storia, e non sono qui per provocare qualche lacrima facile.
Insomma, avrei potuto allontanarmi per almeno una settimana lasciando che si occupasse di lei una professionista, ma in questi mesi ho capito che lei non è pronta ancora a staccarsi da me, figuriamoci dormire con una estranea in casa. Quando otto mesi fa sono andata a prenderla, mi sono trovata tra le braccia una persona fragile, fragilissima, spaesata, che non riusciva a ricostruire una frase compiuta e che piangeva e si perdeva nel buio della propria anima, e che adesso doveva abituarsi a qualcuno che l’aiutasse anche per fare una doccia, o per sedersi ed alzarsi da una sedia.
Una donna spaventata e piccola, che dal primo giorno mi ha chiesto in lacrime di non lasciarla dormire da sola la notte, perché aveva paura, a nulla è valsa la luce sul comodino od ogni tipo di rassicurazione. Una donna che ho dovuto imparare a conoscere, perché non sembrava neanche la persona che mi aveva educato a lottare come un maschio, a pensare al futuro e ad avere coraggio. E’ stato un lavoro progressivo, fatto del sostegno dei medici e dei farmaci, certamente, di una fisioterapista che con tanta pazienza l’ha affiancata tutti i giorni per mesi , ma è stato un inventarsi tutti i giorni e tutte le ore, stimoli e giochi che la spingessero nuovamente ad uscire dal proprio corpo, a lasciarsi asciugare anche i capelli senza doversi sentire in colpa, a guardare un film dall’inizio alla fine cercando di capire insieme chi fosse l’assassino. E’ difficile ed estenuante fisicamente e mentalmente, vivere il quotidiano con chi si perde in un labirinto di pensieri negativi ed ossessivi, con chi non ha più il gusto dell’alba e del tramonto, con chi da tempo ha perso la speranza in un dedalo buio ed asfissiante, e non nego che questo influenza la mia vita, la mia percezione del mondo, condizionando anche le mie di aspirazioni, ma al contempo è una sfida e un modo per sentire che esiste un’altra realtà che va vissuta ed affrontata.
Ogni minuto diventa la tessera di un puzzle fatto di migliaia di tessere da mettere in ordine, piccoli pezzi confusi e dello stesso colore. Occorrono continue rassicurazioni per lei che vive anche il tempo come qualcosa di ostile e che in qualche modo l’allontana da me. Non sono più una figlia, ma una compagna di viaggio a cui spetta di guidare la nave in un mare in burrasca, in cui la quiete sembra inafferrabile. E si è soli, perché non esistono cordoni di sicurezza sociali ed umani, perché il sistema ignora e si allontana dal concetto di malattia, per paura e per negligenza e superficialità.
Piano piano io e lei ci stiamo ritrovando, a ruoli invertiti certo, sotto molti aspetti, ma con la voglia di lasciare che sia quanto più serena possibile per il tempo che le è dato ancora su questo sgangherato pianeta. Se qualcuno si starà chiedendo dove voglia andare a parare o se c’era bisogno di raccontare i fatti miei, voglio rispondere semplicemente e banalmente che in questo nostro tempo è necessario raccontare più che la esaltazione della felicità, l’infelicità ed il dolore della nostra esistenza, le nostre paure, i nostri fallimenti, le nostre debolezze e le nostre malattie, perché siano d’esempio a chi si sente perso e solo e sull’orlo di un burrone.
E’ come tendere una mano a qualcuno in difficoltà, perché ormai nella società del benessere chi è depresso, solo o malato si sente uno sfigato, un perdente che dovrebbe buttarsi sotto un treno, perché la malattia è il buco nero del moderno capitalismo. Belli, forti, felici e tirati, questo il mondo ci chiede ed io invece non voglio piegarmi agli stereotipi di una realtà che preferisce ubriacarsi di gin addizionato al lexodan piuttosto che parlare apertamente di se stessa. Lunedì si torna al lavoro ed io non sono affatto triste o affranta per non avere cartoline da mostrare, mi sento molto più appagata di quanto abbia mai lontanamente potuto immaginare nella mia eterna rincorsa nel mondo.
“Si tratta di una verità spaventosa: il dolore può renderci più profondi, può conferire un maggiore splendore ai nostri colori e una risonanza più ricca alle nostre parole. Questo avviene se non ci distrugge, se non annienta l’ottimismo e lo spirito, la capacità di avere visioni e il rispetto per le cose semplici e indispensabili.”