di Domenica De Falco
Uno stile icastico, una penna veloce che trasmette il senso dell’immediatezza e del vissuto che fanno da fil rouge ai suoi scritti, tessendo una trama di significati e di significanti imparentati da un grande comune denominatore: la sincerità.
Valeria Parrella è sincera, fino a risultare cruda e talora volutamente (e senza dubbio provocatoriamente) oscena nel suo voler nominare cose e sentimenti per quelli che sono.
Sa entrare (e lo fa con perizia) fin dentro alle paure più ancestrali di ognuno di noi la sua analisi della disabilità (Tempo di imparare). Recalcati usa una frase bellissima a proposito di questo libro, che è capace come pochi “di trasformare la stortura in bellezza”, definendo in tal modo uno dei tratti salienti della scrittrice partenopea.
Si sente forte l’autobiografico e il vissuto in ogni anfratto dei suoi testi, ma è un dato che nulla toglie al talento narrativo, anzi, sedimenta e approfondisce quello che in realtà diventa un valore aggiunto. Valeria Parrella “inietta” vita nel suo lettore, con una (s)carica continua di emozioni tanto più apprezzabili in quanto non indugiano mai nel sentimentalismo facile né, meno che mai, nel cliché della profondità ricercata. Scrive perché è ciò che le viene di più naturale al mondo, e lo fa bene, benissimo.
Senza ostentazione alcuna, di quelle che per ricercare volutamente i “paroloni” fanno perdere di vista il senso, e che il più delle volte sono solo maquillage di piedistalli inconsistenti. No, lei dentro ha davvero un mondo immenso e ha fretta di raccontarlo (“Devo sbrigarmi a scrivere questo libro: ho poche ore di autonomia”, Ma quale amore), e pur così, non risulta mai superficiale, mai scontata. Semmai è di una piacevolissima leggerezza, che è tutt’altro.
È l’esempio perfetto della scrittrice (e della donna) che non ha minimamente bisogno di orpelli, poiché ciò che racconta è autentico, forte, cesellato con le parole esatte: “le mot juste” per dirla alla Flaubert.
Alcuni temi sono ricorrenti, e riguardano la maternità e gli interstizi profondi di incertezza che questa scava (“Non ho neppure capito bene se Irene mi mancava, la notte. Non avevo mai conosciuto la sua presenza e ora mi toccava un’assenza che non sapevo riconoscere”, Lo spazio bianco), i rapporti amorosi o pseudo amorosi, verso i quali il clin-d’œil ironico al lettore è sempre presente, a volerne sottolineare il carattere transeunte (Troppa importanza all’amore).
E poi c’è la donna, quella forte, che non si intimorisce nel chiamare le cose con il proprio nome e non si vergogna a scrivere: “ Non è un cazzo piccolo a fare un uomo piccolo, ma se becchi un uomo piccolo, o addirittura l’uomo piccolo con il cazzo piccolo, alzati subito da quel letto e scappa..” (Enciclopedia della donna). Che poi è la stessa donna, autrice e narratrice, che entra nel personaggio della madre badessa coraggiosa e femmina che si fa suora – e di clausura – non per mortificare la sua carne o annichilire il proprio spirito ma perché si innamora (sì, si innamora!) di Cristo e, come tutti gli amori veri, questo sentimento le scoppia nella pancia, dopodiché lascia il monastero perché deve crescere il figlio di una povera derelitta che glielo ha affidato, neonato, tra le braccia ( “Gli esposti”, in Troppa importanza all’amore).
I libri della Parrella non sono libri di carta, sono libri di carne, e questo li rende libri da leggere, senza indugio, à bout de souffle…