“Perdono tutto anche di trattare i defunti come numeri… ma non vi perdono che le salme dei defunti vengano seppellite senza un funerale”, Basso lodigiano 2020.
“Le scuole sono state chiuse come pure le fabbriche per un po’ di giorni, non fanno più nessuna sepoltura, [le salme]le portano via come i cani”. Biella 1918.
Cento anni di distanza, ma le parole dei testimoni suonano così simili.
Il primo testo è una testimonianza pubblicata su Facebook ai primi di marzo quando già Covid 19 spazzava la Lombardia, il secondo è tratto da una lettera scritta ai parenti emigrati a Ellwod City negli Stati Uniti nel pieno della pandemia di Spagnola, come racconta Eugenia Tognotti (La “spagnola” in Italia, Franco Angeli editore, pp.191, euro 23,00).
E’ piuttosto impressionante leggere i resoconti di quello che avvenne tra il 1918 e il 1919, quando un nuovo virus influenzale causò un numero di vittime che ancora non si conosce con certezza ma che si stima situarsi tra i 20 e i 50 milioni, più di quelle dovute alla Grande Guerra in quegli stessi anni. Una strage. Per di più una strage passata sotto silenzio in quegli anni in cui la censura vietava di parlare di argomenti che potevano abbattere il morale della popolazione già prostrata dalla guerra. E dimenticata negli anni successivi, non solo qui da noi, ma anche ad esempio negli Stati Uniti dove uno storico ha scritto un libro dal significativo titolo “America’s forgotten pandemic”.
Eppure la Spagnola colpì in tutto il mondo dall’Alaska all’Africa, dall’Europa alla Nuova Zelanda. E’ impressionante, dicevamo, ricostruire quella storia per le analogie tra ciò che è accaduto allora e ciò che stiamo vivendo in questi giorni in cui un altro virus emerso da chissà dove ha dato vita a una pandemia che sta uccidendo migliaia di persone in tutto il mondo e che sta cambiando il nostro modo di vivere.
Vale la pena allora ricordare qualcosa di quella pandemia di cent’anni fa. Non segnaleremo le analogie, chi legge le troverà facilmente da sé.
E’ colpa sua
L’influenza spagnola, o febbre spagnola, o semplicemente spagnola come venne chiamata in Italia (ma vale la pensa ricordare che altrove ebbe anche altri nomi, come “la malattia del soldato napoletano” in Spagna o “la malattia bolscevica” in Polonia) colpì in tre ondate successive e ravvicinate tra loro: la prima nella primavera del 1918, la seconda nell’autunno dello stesso anno, la terza nei mesi invernali a cavallo tra il 1918 e il 1919. La seconda ondata fu la più letale. Da dove partì l’epidemia non si sa con certezza. Pare che primi focolai fossero scoppiati in alcuni campi militari negli Stati Uniti, comunque in Europa arrivò più o meno contemporaneamente, ma mentre nei paesi in guerra i giornali venivano censurati e le notizie sulla strana malattia uscivano col contagocce, in Spagna – dove la guerra non c’era – dell’epidemia che stava mietendo vittime se ne parlava eccome. Fu questo il motivo per cui si pensò che l’origine di tutto fosse lì e il nome dell’influenza divenne “la spagnola”. Era probabilmente anche un modo per scaricare su altri la responsabilità di quello che stava avvenendo. Un po’ lo stesso compito, diremmo, che assolve oggi il nome di “virus cinese” dato a SARS-COV-2 dal presidente degli Stati Uniti.
In Italia la malattia compare a maggio del 1918 in forma lieve, sembra che già nell’estate però arrivi la seconda ondata, quella più cattiva. Le autorità sanitarie cominciano a sostenere che si tratti di influenza, ma la popolazione non è molto disposta a crederci. Del resto l’influenza si conosceva e non faceva paura, mentre questa malattia misteriosa di paura ne faceva eccome: i sintomi iniziali erano una febbre alta, fastidi alla gola, tosse secca, stanchezza, mal di testa, dolori agli arti, congiuntivite, ma poi spesso peggioravano e il paziente cominciava a respirare con difficoltà, sanguinava dal naso, la sua pelle diventava viola, arrivava poi la fame d’aria e spesso il decesso.
Si fa presto a dire disinfettante…
Cosa si poteva fare per arginare il contagio che sembrava correre velocissimo? In primo luogo si misero in campo misure di isolamento, in Italia isolamento e quarantena si riuscirono ad applicare in modo completo solo nei campi militari, dove c’era una maggiore disciplina. Tuttavia il 22 agosto del 1918 il ministero dell’interno (cui faceva capo la sanità pubblica) predispose l’identificazione e la rapida denuncia dei focolai, chiese di evitare gli assembramenti e di vigilare sulla pulizia di strade e edifici. Ai primi di ottobre le autorità locali predisposero altre misure: chiusura delle scuole, delle chiese e dei teatri, sospensione delle riunioni pubbliche e proibizione di visita alle persone malate. Venivano poi sconsigliati i viaggi in treno e le cerimonie religiose e i funerali che successivamente vennero del tutto vietati. Sconsigliati anche gli abbracci, i baci e le strette di mano. Il distanziamento sociale veniva invocato dai medici, ma poco praticato. Dopo il 15 ottobre si decide la chiusura anticipata delle osterie e i generi alimentari. Si punta molto sulla disinfezione e la sterilizzazione che gli esperti raccomandano caldamente, ma, come scrive il Messaggero in quei mesi: “si fa presto a dire disinfettante…”, perché i disinfettanti spariscono dagli scaffali dei negozi. Si esauriscono le scorte e i prezzi salgono alle stelle.
Altrove non va meglio. A Philadelphia, la prima città ad essere colpita negli Stati Uniti , il 3 ottobre vengono chiuse scuole, chiese e teatri, ma il 5 ottobre la città conta già 2600 morti, dopo una settimana sono diventati 4.500. Il 10 ottobre ne muoiono 759 in 24 ore (Gina Kolata, Flu. The Story of the Great Influenza Pandemic of 1918 and the Search for the Virus That Caused It. Farrar, Straus and Giroux, pp. 330)
Ma torniamo al nostro Paese. Cominciano a scarseggiare medici e infermieri, anche perché molti sono al fronte. Gli studenti dell’ultimo anno di medicina vengono inquadrati negli ospedali dopo un breve corso di formazione, ma dai resoconti sembra che molti ammalati, soprattutto in aree periferiche, non videro mai un medico e tanti morirono in casa senza sapere perché. I medici che c’erano visitavano fino a 100 malati al giorno e lamentavano il rischio elevato di contrarre la malattia. E in effetti alla fine di ottobre del 1918 si contano molti medici contagiati.
Cominciano le difficoltà a trovare posti per i cadaveri nei cimiteri e anche gli “affossatori” scarseggiano tanto che si ricorre ai militari per trasportare i cadaveri. I morti si accumulano, ma anche in questo caso non è solo un problema italiano. Gina Kolata racconta come in sperduti villaggi dell’Alaska, così come nelle case delle città di Philadelphia, i morti rimanevano giorni in attesa di sepoltura.
Gli esperti sui giornali italiani chiedono calma e serenità d’animo alla popolazione, ma è difficile assecondarli. Intanto si contano oltre cento morti al giorno nelle grandi città. A Lodi (Lodi) muore il 22,8% dei ricoverati. Cominciano a circolare voci su alcuni farmaci che potrebbero funzionare anche a scopo preventivo, tra questi il chinino (anche allora il chinino) che comincia così a sparire dalle farmacie sottratto a chi ne avrebbe sicuramente bisogno, come i malati di malaria.
Dagli all’untore
Si comincia a parlare di untori, qualcuno li individua tra i medici, qualcuno nelle autorità di governo (qui un’analogia la ricordiamo perché forse non tutti hanno ascoltato un giornalista della RAI che in una conferenza stampa solo pochi giorni fa ha detto che i medici potevano essere “untori loro malgrado”). E non manca neppure l’ipotesi della guerra batteriologica: la malattia viene definita “un regalo della Germania” che ce l’avrebbe mandata per farci perdere la guerra.
La gente si lamenta perché gli scienziati non hanno un’opinione unica, ognuno dice la sua e soprattutto ricorrono all’oscuro linguaggio della scienza per nascondere il fatto che non ci capiscono niente, questo fatto dà luogo anche a scritti ironici sui giornali (“L’intervista deve essere prudente/ perché oscura è l’origine del male/ e quindi è giusto che dentro il giornale/ la scienza abbondi e non si afferri niente”, Da Il microbo spagnuolo. Dialogo tra Brontolone e Buontempone in “La nuova Sardegna” 3-4 dicembre 1918, cit. in Tognoni).
Trova le differenze
Ci fermiamo qui, ma non prima di aver ricordato che naturalmente le differenze fra le due pandemie sono molte: innanzitutto nel 1918-19 c’era una guerra in corso che amplificò moltissimo gli effetti del contagio. In secondo luogo le conoscenze della medicina erano incomparabilmente meno estese: i medici sapevano dell’esistenza dei virus ma non ne avevano mai visto uno, oggi riusciamo a isolarli e sequenziarli in pochi giorni per studiare farmaci e vaccini.
Nel 1918 le mascherine erano di semplice garza e i respiratori non esistevano, mentre la possibilità di tracciare i contatti delle persone contagiate era nulla. Infine c’è una differenza importante tra le due pandemie: mentre oggi la letalità maggiore si riscontra negli anziani, la maggior parte dei decessi per influenza spagnola nel mondo ha riguardato persone sotto i 65 anni e soprattutto giovani di età compresa tra i 20 e i 40 anni. Si pensa che gli anziani beneficiarono di una parziale protezione dovuta all’esposizione alla pandemia influenzale del 1889-1890, causata da un virus simile a quello del 1918-19.
Perché il virus della spagnola era davvero un virus influenzale: H1N1 per la precisione, lo si scoprì molti anni dopo isolandolo in un corpo congelato. Era derivato da un virus che colpiva gli uccelli e che compì il salto di specie, diventando in grado di colpire l’uomo. Il virus con cui abbiamo a che fare oggi è diverso, lo sappiamo, fa parte della famiglia dei coronavirus. E tuttavia anch’esso viene da un virus animale che ad un certo punto è diventato capace di infettare l’uomo e di trasmettersi da essere umano a essere umano. Sappiamo dove guardare per la prossima pandemia che ci aspetta.
pubblicato da Il Bo live – Università di Padova – di Cristiana Pulcinelli